Uno sguardo all’Europa Si sente spesso ripetere che il ritardo economico del Sud è dovuto alle sue classi dirigenti. Se queste, e in particolare quella politica, fossero state più capaci, più efficienti, oggi le regioni meridionali sarebbero più sviluppate. Corollario di quest’argomentazione è che il futuro del Mezzogiorno dipende, in ultima analisi, dal ceto politico meridionale e, di conseguenza, dalle scelte dei cittadini. Ma è davvero così? Davvero lo sviluppo economico – quello basato sugli investimenti produttivi, non quello effimero e assistito, basato sui sussidi – dipende dalla politica regionale o locale?
Queste domande potrebbero sembrare provocatorie. Ma, prima di rispondere, si allarghi lo sguardo al di fuori dell’Italia e si confronti la situazione del Mezzogiorno con quella di altre aree d’Europa. Nell’UE vi sono 272 regioni (cosiddette Nuts 2). Se le si ordina secondo il loro livello di sviluppo (misurato dal PIL pro-capite), si osserva come le regioni meridionali si collochino nella parte bassa della graduatoria. Per esempio, la Basilicata si trova alla posizione 209, la Puglia al 219esimo posto, la Calabria al 226esimo, la Campania al 231esimo posto. Curiosamente, in questa graduatoria dello sviluppo, la Calabria si trova accanto a due regioni del Regno Unito, la Cornovaglia e il Galles dell’Ovest. Un’altra regione della Gran Bretagna, il Lincolnshire, è a poche posizioni dalla Basilicata, allo stesso livello di regioni della Slovacchia, della Grecia e del Portogallo. È difficile credere che in tutte queste regioni la causa del ritardo economico sia la qualità delle classi dirigenti locali. Le cause, probabilmente, sono altre.
Perché non si investe al Sud? Negli ultimi quindici anni, tra le regioni europee che sono cresciute di più vi sono quelle dell’Est. Regioni arretrate della Polonia, della Romania, della Croazia hanno intrapreso un percorso di convergenza economica rispetto a quelle più avanzate. Negli ultimi anni, migliaia di imprese italiane hanno delocalizzato la produzione in quei paesi creando decine di migliaia di posti di lavoro. Secondo Confindustria Balcani, nella sola Romania sono attive circa 16.000 imprese italiane, con 800.000 occupati. Grandi multinazionali come la Fiat (oggi FCA), hanno realizzato stabilimenti in Serbia e Polonia e in altri paesi meno sviluppati dell’Italia. Quali le ragioni? Perché le imprese straniere investono poco nel nostro Mezzogiorno? Forse a causa della modesta qualità dei politici calabresi, pugliesi o siciliani?
Più prosaicamente, in Polonia, la tassazione sui redditi d’impresa è del 19 per cento, in Romania del 16, in Bulgaria del 10 per cento (Fig. 1). Spesso, accordi tra autorità locali e imprese agevolano gli investimenti stranieri. In Italia, la tassazione d’impresa è del 31,4 per cento, mentre il ginepraio di norme e i ritardi burocratici scoraggiano i potenziali investitori. E ancora, il costo orario del lavoro è di 10 euro in Croazia, di 8,6 in Polonia e di soli 5 euro in Romania. In Italia di 28 euro. Si potrebbe obiettare che l’Italia è un paese avanzato e che, dunque, il confronto con quelle nazioni è improprio.
Non si può certo ridurre il salario degli operai italiani del 3-400 per cento, né eliminare (come alcuni vorrebbero) le tutele dei lavoratori. Del resto, in Germania i salari sono più elevati di quelli italiani e così la tassazione sulle imprese. Ma è con la Polonia, con la Romania, con la Croazia che oggi l’Italia (e, in particolare, il Meridione) si trova, di fatto, a competere. Certo, una nazione sviluppata come la nostra dovrebbe puntare su ricerca e innovazione per crescere. Ma l’Italia, si sa, quanto a investimenti in ricerca è indietro rispetto ai paesi più avanzati come, per esempio, la Germania.
Lo sviluppo e le buone politiche Nello sviluppo economico contano molti fattori. Tra questi, il livello della tassazione, la qualità della regolamentazione, la localizzazione geografica rispetto ai grandi mercati hanno un grande peso, certo assai superiore a quello che può avere il ceto politico locale. Se al Sud il livello della tassazione fosse quello della Serbia, per non dire del Lussemburgo e dell’Irlanda, gli investimenti esteri affluirebbero, a prescindere dalla qualità dei politici locali. Lo sviluppo economico dipende, innanzitutto, da fattori economici, di mercato, per cui è ragionevole che le politiche nazionali, che influenzano la competitività di un paese, siano assai più importanti di quelle regionali o locali. Le regioni non sono monadi, mondi chiusi. Tutt’altro: sono economicamente interdipendenti. Nelle regioni meridionali (e in alcune come la Calabria più di altre) gli svantaggi competitivi che riguardano l’Italia nel suo complesso si cumulano con disincentivi specifici, come la criminalità. Svantaggi che non sono compensati da fattori di attrazione per gli investimenti. Il Mezzogiorno rischia, di conseguenza, di diventare sempre più marginale, anche rispetto ad altre regioni arretrate d’Europa.
Con ciò non si vuole dire che la politica locale non conti affatto. La buona politica locale serve, per esempio, per avere una sanità affidabile, città pulite e servizi pubblici efficienti. Per scegliere dirigenti capaci, selezionati per merito e non per appartenenza politica o famigliare. Serve per utilizzare in maniera efficiente le risorse pubbliche, evitando che fiumi di quattrini vengano dilapidati per alimentare reti clientelari e piccole e grandi rendite. Buone politiche possono influenzare, indirettamente, lo sviluppo locale e, certamente, producono effetti diretti sulla qualità della vita dei cittadini. È su queste cose, su ciò che davvero la politica può fare e non fa, che andrebbero valutate le responsabilità. Quelle di buona parte del ceto politico meridionale (ma non solo di quello) apparirebbero, senza dubbio, tutt’altro che lievi.