In queste ultime settimane del 2017 l’attenzione di molti osservatori è stata catturata dai dati dell’annuale Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno. In particolare, molto dibattito ha riguardato gli incrementi del PIL regionale. La sintesi è che dal 2015 al 2016 il PIL del Mezzogiorno è cresciuto del 2,2%. Si tratta di un valore maggiore di quello osservato nel resto del paese (nel Centro-Nord il PIL è cresciuto dell’1,5%), determinando un aumento medio nazionale pari all’1,71%. Il fatto che il Mezzogiorno sia cresciuto più del Centro-Nord è stato utilizzato per raccontare una storia diversa da quella cui siamo abituati, ossia che il Mezzogiorno è la zavorra del paese.
Su base regionale si nota che non tutto il Mezzogiorno cresce nello stesso modo. Se focalizziamo l’attenzione ancora sul PIL, la crescita è dovuta in larga misura alla Campania (+2,4%), alla Basilicata (2,1%) e al Molise (1,6%). All’estremo opposto si collocano l’Abruzzo (-0,2%), la Sicilia (+0,3%) e la Sardegna (0,6%). Il PIL della Calabria cresce dello 0,9%, e questa variazione positiva si aggiunge a quella (0,7%) osservata dal 2014 al 2015. Per periodo 2014-2016, la Calabria è cresciuta – in termini di PIL aggregato – dell’1,6%, recuperando parte della riduzione di ben 14,2 punti percentuali di PIL che si è avuta dal 2008 al 2014.
Il legame con il ciclo economico Questi risultati alimentano gli sforzi per capire se le dinamiche di crescita della Calabria siano legate alle politiche di sviluppo, oppure ad altre ragioni. Sebbene queste variazioni di PIL indichino qualche forma di reazione dell’economia calabrese dopo anni di declino, è da escludere che possano essere interpretate come l’esito di riforme strutturali dovute alle politiche di sviluppo. Non sembra, infatti, che ci siano state negli ultimi due-tre anni politiche così forti da aver indotto cambiamenti radicali sul livello di efficienza dei sistemi economici regionali. Più verosimilmente, le variazioni annuali del PIL sono trascinate dalla ripresa che si sta osservando in Italia e in Europa. La motivazione è che l’economia della Calabria – così come qualsiasi sistema piccolo, lontano dai mercati e con un elevato numero di vincoli strutturali – si muove in modo sincronizzato con le altre economie (vedi anche 1 , 2, 3 e 4]. L’idea, nelle parole di Kuznets, è che “la crescita è un’alta marea che solleva in alto tutti i battelli”.
La specificità della Calabria e la trappola della povertà. Tuttavia, in Calabria questo andamento pro-ciclico presenta un’anomalia, in quanto l’economia calabrese reagisce pesantemente quando il ciclo è negativo e cresce poco e lentamente quando il ciclo è positivo. È un battello che galleggia, ma a fatica. Meglio: è un sistema che rischia di affondare, qualsiasi sia l’intensità della mareggiata. Il fatto di recuperare nelle fasi di crescita solo in parte le perdite registrate durante le crisi, amplia le distanze con il resto del paese e dell’Europa e posiziona la regione in una sorta di «trappola della povertà». La circostanza di scontare un ampio ritardo iniziale e di muoverci in modo sincronizzato al ciclo preclude la possibilità di ottenere sviluppo diffuso e comparabile a quello che si osserva altrove. È come se fossimo destinati a collocarci in un equilibrio di permanente sottosviluppo. Fino a 10-15 anni fa non abbiamo avuto la corretta percezione di questo stato di cose perché due circostanze (protezione dalla globalizzazione e finanza pubblica espansiva) hanno consentito a questa regione di vivere al di sopra delle proprie possibilità, svilendo la propensione a realizzare trasformazioni in grado di farci camminare da soli. Oggi quel modello – denominato di dipendenza – non è più sostenibile e, quindi, la ”trappola della povertà” fa parte delle preoccupazioni dei più: essa si sta trasformando da evento probabile a evento certo.
Siamo condannati a innovare. Sebbene sia complicatissimo fornire ricette per assicurare crescita certa (spesse volte le ragioni dello sviluppo sono imprevedibili) non esiste dubbio alcuno che la presenza di alcuni fattori ne facilita la realizzazione. Per esempio, è noto che la crescita duratura dipende dal livello di capitale tecnologico su cui può far leva il sistema delle imprese. Affinché questo capitale possa garantire alla regione di competere sulla frontiera della conoscenza di qualche comparto produttivo è dirimente che il settore privato e quello pubblico investano in modo massiccio in innovazione e ricerca. Investire in queste aree significa aumentare i contenuti tecnologici delle produzioni, i quali rappresentano la pre-condizione per vincere la sfida della competitività sui mercati extra-regionali, che oggi è una sfida che si gioca sul piano della conoscenza e della qualità. Investire in innovazione significherebbe attutire le perdite nelle fasi del declino e crescere più degli altri nelle fasi di espansione. Consentirebbe di uscire dalla “trappola della povertà”. In altre parole, per stroncare il circolo vizioso povertà-dipendenza dal ciclo-sottosviluppo, la Calabria è condannata a innovare. Lo abbiamo già scritto qualche tempo fa (vedi anche il recente saggio di Francesco Pastore sullo stesso argomento).
Serve concentrare le risorse in pochi settori. Questa soluzione è facile da individuare da un punto di vista teorico, ma nella realtà esistono moltissime ragioni che nel tempo hanno determinato, come esito, il fatto che soffriamo di pesanti ritardi in termini di investimenti in R&S. Utilizzando i dati Scoreboard del 2017 si osserva come l’Italia e la Calabria, seppure per motivi diversi, rientrino nel gruppo degli “innovatori moderati”, registrando un indice di innovatività sistemica molto lontano dai valori osservati nei paesi e nelle regioni leader dell’Europa. La bassa propensione ad investire è dovuta ai comportamenti delle imprese e delle politiche pubbliche. Limitando la discussione di questa nota alle politiche locali e facendo anche riferimento alle indicazioni della strategia Europa 2020, le azioni regionali a sostegno della ricerca e dell’innovazione sembrano che siano state debolmente pensate per il compito che le compete, che è il seguente: consentire a pochi settori (magari quelli in cui la regione conta qualche embrionale vantaggio competitivo) di fertilizzare in senso tecnologico le produzioni locali. Seguendo la strategia Europa 2020, si può dire che scegliere pochi settori significa conoscere, fissare delle priorità e concentrare la spesa. Al contrario, sembra che il vigente POR Calabria 2014-2020 segua i comportamenti passati che notoriamente erano basati sulla frammentazione della spesa. Un esempio aiuta a capire il problema: quant’è ragionevole che la Calabria punti su 8 Poli di Innovazione nel settore dei beni culturali e turismo, ICT e terziario innovativo, smart manufacturing, logistica, scienza della vita, ambiente e rischi naturali, agroalimentare e bioedilizia? La frammentazione della spesa non aiuta alcun settore, perché oggi le soglie per produrre e/o adottare tecnologia competitiva sono molto elevate. Forse 8 aree di specializzazione tecnologica sono troppe per poter pensare che una regione debole come la Calabria possa stare sulla frontiera di un numero così elevato di ambiti tecnologici. Non sarebbe più efficace selezionarne due/tre e concentrare su di questi le limitate risorse comunitarie? Questa opzione è lontana dagli intendimenti di chi oggi gestisce le politiche regionali per l’innovazione e la ricerca, ma servirebbe a creare massa critica in quei settori su cui puntare per la crescita futura di questa regione. È una scelta impopolare, ma è strategica per l’impatto che avrebbe nel medio periodo.
Una versione ridotta di questo saggio è stato pubblicato sul Quotidiano del Sud (Edizione del 27 Dicembre 2017)
Alcuni contenuti di questo saggio sono stati ripresi in un’intervista di Raffaella Ascione su TaxMagazine