Più investimenti pubblici Oggi, a risorse date, l’alternativa alla patologia dei trasferimenti assistenziali è un consapevole utilizzo degli investimenti pubblici secondo un chiaro disegno di programmazione strategica. Ciò vale sia che si guardi al PIL e, ancor di più, all’occupazione meridionale e senza trascurare gli ulteriori effetti che tale strategia avrebbe a supporto dell’economia del Nord per la quale, dal 2008, il crollo dell’economia nel Mezzogiorno (suo mercato primario) ha molto contribuito alla flessione dell’8% di prodotto. Nelle regioni meridionali, un incremento degli investimenti pubblici esercita un più intenso effetto dando luogo, dopo un certo periodo, a un ampliamento della capacità produttiva dell’area. Ovvero proprio quello di cui una macro-area in ritardo di sviluppo ha più bisogno. Una redistribuzione degli investimenti pubblici verso il Mezzogiorno non è un “gioco a somma zero” per il Paese. Il fatto che ciò sia una concreta e, quindi, auspicabile opportunità lo si può ricondurre proprio all’operare di quel principio di efficienza ed efficacia tanto invocato da chi predica le micidiali dinamiche pro-cicliche (si veda qua).
La clausola del 34% L’occasione di realizzare un esercizio di simulazione – a risorse pubbliche date – degli effetti di una redistribuzione di spesa in conto capitale è stimolata dalla – molto tardiva- introduzione dell’articolo 7bis nella legge n.18 del 27.2.2017 (cosiddetto decreto Mezzogiorno) che rispolvera con un “ravvedimento operoso” un vecchio criterio (mai normato prima d’ora per legge) che in anni ormai lontani prevedeva una quota tra il 30 e il 40 per cento di spesa pubblica ordinaria in conto capitale da realizzare nelle regioni del Mezzogiorno. La riedizione di questo principio, in realtà è più circoscritta sia perché prevede una ripartizione basata sulla quota della popolazione delle diverse circoscrizioni territoriali giungendo, pertanto, a fissare una quota del 34%, sia perché limita la ripartizione della spesa in conto capitale alle Amministrazioni pubbliche centrali. Il criterio del 34% è particolarmente restrittivo visto che gli investimenti pubblici specie per infrastrutture oltre che alla popolazione da servire dovrebbero riferirsi alla scala territoriale che nel caso del Mezzogiorno è superiore al 40% del territorio nazionale. Come noto, in passato, l’impegno si rivelò del tutto platonico – contribuendo a rendere ancora più platonica la retorica della cosiddetta Nuova Programmazione. L’impegno virtuale di allora era oggi sparito all’orizzonte e la spesa in conto capitale ordinaria era crollata al Sud ben più intensamente che nel resto del Paese, rimanendo mediamente di 20 punti al di sotto dell’ obiettivo dichiarato.
L’operatività della reintroduzione della quota del 34% prevista per legge nel Decreto Mezzogiorno dal febbraio 2017 ha fatto un piccolo passo in avanti con il DPCM del 7 agosto 2017 che chiarisce alcuni aspetti operativi ma, per entrare in funzione, attende che sia emanata una direttiva annuale del Presidente del Consiglio dei ministri che indichi le spese in conto capitale ai quali applicare la quota riservata al Mezzogiorno. Un adempimento senza scadenza prefissata che a sua volta richiede che “…i diversi ministeri trasmettano al Ministro per la coesione territoriale e il Mezzogiorno ed al Ministro dell’ economia e delle finanze l’elenco di tutti i programmi di spesa per opere pubbliche ricompresi nel Documento di programmazione pluriennale…“[1] Oltre ad essere, quindi, ben lontani da un’effettiva operatività della norma, il rischio che si rinvii indefinitamente la sua operatività è aggravato dal fatto che non viene previsto alcun meccanismo sanzionatorio per l’eventuale inadempienza perpetuando così la prassi nella quale il mancato rispetto del criterio è stata la norma e non l’eccezione. Sembra, perciò, quanto mai opportuna la proposta di istituire un Fondo di Riequilibrio Territoriale della spesa ordinaria in conto capitale “…in cui versare le risorse che le Amministrazioni non sono state in grado di destinare al Mezzogiorno”[2] (Provenzano, p.7). L’introduzione per via legislativa del criterio del 34% pone in concreto l’esigenza, oltre che di realizzare il dettato normativo il più rapidamente possibile, anche quello di valutarne la potenziale portata sia con riferimento alle aree di riferimento sia sotto il profilo di un’attenta valutazione dell’impatto locale e globale che una redistribuzione significativa di una voce tanto significativa dell’intervento pubblico. In particolare, ciò consente di verificare se la redistribuzione territoriale di un ammontare di risorse date migliora o peggiora l’efficienza e l’efficacia dell’intervento pubblico a livello di Sistema.
La simulazione della SVIMEZ A questo scopo, la SVIMEZ ha effettuato una simulazione utilizzando il modello econometrico NMDOS-SVIMEZ per stimare quale sarebbe stato l’andamento del prodotto lordo e dell’occupazione al Sud ed al Centro Nord qualora l’ammontare storicamente dato delle risorse ordinarie effettivamente spese in conto capitale avesse ottemperato al nuovo criterio di legge nel periodo 2009-2015[3]. Nella simulazione si considera il complesso della spesa ordinaria in conto capitale della Pubblica Amministrazione e non solo quella delle Amministrazioni centrali e ciò sia perché in carenza degli adempimenti sopra ricordati non si ha chiara informazione sulle risorse da considerare, sia perché si ritiene (e si propone) che a regime la clausola vada riferita all’ intera Pubblica Amministrazione.[4]
I risultati della simulazione Nel periodo considerato 2009-2015, la redistribuzione – a risorse date – della spesa in conto capitale avrebbe ridotto al Sud la perdita cumulata di prodotto di oltre 5 punti percentuali, e le perdite di occupazione di 291000 unità rispetto alle 490000 effettive. Al Centro-Nord, dove in virtù del vincolo posto dalla clausola del 34%, a parità di risorse si ha una riduzione degli investimenti pubblici, la perdita di prodotto incrementa di 1,3 punti percentuali e quella di unità di lavoro di 37600 unità. Nel complesso nazionale, il prodotto avrebbe avuto un beneficio di 0,2 punti percentuali e un vantaggio occupazionale di oltre 185000 addetti. Il “costo” – stimato in ragione delle diverse aliquote fiscali applicate a redditi diversificati territorialmente – sarebbe stato contenuto attorno a un miliardo di € annuo, a fronte del quale si sarebbe avuto un minor costo connesso al risparmio di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, disoccupazione, povertà, ecc.) commisurato alla riduzione della disoccupazione di oltre 185000 unità di lavoro (Tabella 1)
Oltre la crescita? Il risultato della simulazione con i positivi effetti prospettati dall’applicazione della clausola del 34% rispetto alla allocazione effettivamente realizzata, degli investimenti pubblici segnala che il criterio di equità distributiva, peraltro coerente al dettato costituzionale del citato comma V dell’ articolo 119 della Costituzione, si dimostra ottemperare anche a criteri di efficienza ed efficacia della spesa. La destinazione al Sud migliora, infatti, grazie al più alto impatto macroeconomico non solo il “ritorno sociale”, ma anche sotto l’aspetto tecnico la convenienza relativa nella scelta degli investimenti. A condizione che seguano un orientamento programmatico, essi, inoltre, consentono di massimizzare le potenzialità strategiche che dovremmo prefigurare a scala di Paese. Rispetto alla provocatoria prescrizione di Keynes – scavare buche per poi riempirle – un programma di investimenti pubblici – cioè una politica attiva dell’offerta – oltre al sostegno della domanda è propedeutica a determinare condizioni favorevoli per attivare ed attrarre ulteriori investimenti privati. Il concetto di politica attiva dell’offerta di evidente e cruciale importanza rinvia alla tradizione del neomeridionalismo saraceniano. In assenza di politiche attive, a risorse date, continuare a pensare che lo sviluppo proceda “a costo zero”, solo per effetto della modifica delle regole (la retorica delle riforme strutturali che occupa l’ agenda politica da anni) è una pericolosa fuga dalla realtà che ci consegna all’inerzia e – sempre per parafrasare Keynes – a un lungo periodo che inghiotte tutto e tutti. L’insistente retorica sulle “riforme” è tutt’ uno con l’impotenza politica e con la una sudditanza a schemi mentali incapaci di intendere ancor prima di volere interpretare la natura strutturale della nostra crisi. La duplice esigenza di avviare e connettere, a risorse date, la ripresa dell’economia alla necessità del riposizionamento strategico del Sistema Italia nel mondo globale, impone invece di definire percorsi adeguati a realizzare precisi obiettivi. Abbiamo visto con la simulazione l’efficacia di una redistribuzione delle risorse previsto da un dettato legislativo da poco introdotto e ancora del tutto inattuato. Consideriamolo come un modo di riaprire un sensato confronto sul federalismo fiscale con il quale confrontarsi sulle rinate pretese di “autonomia fiscale” del Nord. L’esigenza essendo quella di definire un progetto per il Sistema Paese. A ben vedere si dovrebbe procedere con urgenza a una consapevole riflessione sui necessari correttivi da introdurre per aggiornare il nostro modello trainato dalle esportazioni. Da questo punto di vista la priorità dovrebbe essere ora quella di cogliere, salvaguardare e sviluppare al meglio il nostro ruolo in un Mediterraneo sempre più al centro dei traffici e degli interessi dell’economia globale. Al contrario, in questi anni, lungi dal mettere a frutto il naturale enorme potenziale di vantaggio competitivo abbiamo addirittura indebolito la nostra presenza e capacità di attrazione diventando, più di ieri, marginali nel “nostro” mare e, di conseguenza, nella UE. La prospettiva Euromediterranea rappresenta un’opportunità vitale e per la cui realizzazione è fondamentale il coinvolgimento del Sud. Forse proprio la mancata comprensione si ciò è alla base della perdurante inerzia. alla quale, oggi è necessario opporre la “spinta” necessaria per alimentare e trasformare in “esportazione” la rendita posizionale che una logistica a valore può consentire di sfruttare. L’esportazione del vantaggio logistico, abbinato al vantaggio fiscale (Zone Economiche Speciali), e allo sviluppo di un’efficiente offerta energetica può avviare da Sud quella “transizione ecologica” che ufficialmente è tra gli obiettivi più pressanti e ambiziosi che l’UE si propone di realizzare. Il made in Italy, ormai ampiamente dominato dal capitale estero, è un patrimonio da salvaguardare consapevoli (con un pizzico di ironia) che esso non è più, con buona pace dei territori, la locomotiva del Sistema e tanto meno lo sarà in prospettiva. Il necessario riposizionamento impone oggi un ri-bilanciamento a Sud indispensabile per riattivare, in forme radicalmente diverse, quell’interazione tra territori che, in una storia ormai quasi dimenticata, realizzò il nostro “miracolo”.
[1] Provenzano (2018) p.5 e al quale si rinvia per una dettagliata analisi tecnica e critica del DPCM 7 agosto 2017, nonchè per le proposte di integrazione e correzione che l’autore esplicita e che sono solo parzialmente richiamate in questa nota.
[2] Provenzano (21018) p.7. Si precisa anche che, in coerenza con quanto stabilito nella riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, il fondo dovrebbe chiamarsi di perequazione e non di riequilibrio, alludendo il riequilibrio al comma V dell’ art. 119 (competenza “aggiuntiva”) e la perequazione al comma IV del 119 di competenza “ordinaria e obbligatoria” dello Stato.
[3] Si veda Giannola, Prezioso (2017).
[4] L’esercizio potrebbe considerare il settore pubblico allargato in considerazione del fatto quale aziende pubbliche come ENI, ENEL, ANAS, Ferrovie dello stato svolgono un ruolo molto rilevante proprio sul versante degli investimenti territoriali.
Riferimenti
Giannola A, Prezioso S (2017) La clausola del “34%” delle risorse ordinarie a favore del Sud: una valutazione relativa al periodo 2009/2015, Nota SVIMEZ, marzo, Roma
Provenzano G (2018) “L’ importanza della ‘clausola del 34%’ e i rischi di una debole e parziale applicazione”, Nota SVIMEZ, febbraio, Roma