Da quando il “segno più” è tornato negli andamenti del Pil, la favorevole demografia delle imprese meridionali viene letta da molti osservatori come un significativo segnale di ripartenza del Sud (si veda, ad esempio, qui).
Segnali di dinamismo arrivano anche dai dati sulla nati-mortalità delle imprese. Nel 2017, nel Mezzogiorno, le nuove imprese create hanno superato quelle che hanno chiuso i battenti (Unioncamere-Infocamere). Il numero di imprese meridionali è, dunque, aumentato. Un dato positivo, che genera ottimismo. Ma l’ottimismo è stemperato da altri dati: non sono state avviate nuove attività manifatturiere e buona parte delle imprese create sono di piccola dimensione e poco patrimonializzate. Nel Mezzogiorno, i comparti più interessati dalla creazione di nuove imprese sono stati il turismo (con un saldo netto di 4.807 imprese), l’agricoltura (+2.810), le costruzioni (+1.284) e altri comparti nei servizi più tradizionali. La manifattura è stato, invece, l’unico settore in cui si è registrato un, pur lieve, saldo negativo: sono state create meno imprese di quelle che hanno cessato l’attività (-71).
Va ricordato che un saldo negativo di imprese non è necessariamente una “brutta notizia”. A certe condizioni, l’uscita dal mercato delle imprese più deboli può produrre un benefico effetto di selezione, che lascia sul campo solo le più efficienti, sopravvissute alla concorrenza. In tal senso, l’assottigliamento del tessuto produttivo andrebbe letto favorevolmente, purché alla fine le imprese rimaste siano più efficienti e, dunque, in grado di sostenere la crescita economica. Il processo di “distruzione creatrice” della crisi ha, però, operato solo in parte nel Mezzogiorno, soprattutto nei settori meno esposti alla concorrenza che, spesso, sono anche quelli meno efficienti. La crisi ha, invece, fortemente colpito l’industria manifatturiera meridionale, che ne è uscita fortemente ridimensionata. Per questo motivo, la denatalità imprenditoriale nel settore manifatturiero, che non conosce sosta neanche nei periodi di “boom” di vitalità imprenditoriale, fa riflettere. A meno che non si pensi che lo sviluppo del Sud possa basarsi esclusivamente sull’agricoltura e sul turismo (si veda il Rapporto SVIMEZ 2017). Agricoltura e turismo sono certamente settori dalle enormi potenzialità, da valorizzare e sostenere con adeguate politiche. Ma l’idea che possano rappresentare il volano economico del meridione, un’area con 20 milioni di abitanti, è riduttiva, se non rischiosa.
L’industria manifatturiera resta fondamentale per le prospettive di crescita futura del Mezzogiorno, per l’insostituibile ruolo che svolge nell’innovazione, per il suo contributo decisivo al conseguimento dell’equilibrio dei conti con l’estero e per la sua capacità di generare indotto nelle economie locali.
Se il primo aspetto riguarda i settori in cui operano le nuove imprese, il secondo riguarda la loro forma societaria. Il tessuto produttivo del Mezzogiorno, in tutti i settori di attività, è strutturalmente caratterizzato da imprese di piccole dimensioni e scarsamente capitalizzate. Imprese piccole e finanziariamente fragili che si trovano ad operare in un contesto difficile (si pensi alla qualità delle pubblica amministrazione e dei beni pubblici o alla disponibilità di credito) che ne limita le potenzialità di crescita dimensionale e anzi, in diversi contesti, ne pregiudica la sopravvivenza. Non è solo la numerosità delle imprese ad essere importante; lo è anche la loro capacità di svilupparsi, di crescere in dimensioni e in efficienza, e ciò dipende anche dalla loro forma giuridica.
Dalla distribuzione per forma giuridica delle imprese iscritte nei registri delle Camere di Commercio nel 2017 risulta che la quota di società di capitale sul totale delle nuove iscrizioni nel Mezzogiorno è solo di poco inferiore al dato del Centro-Nord (30,6 contro 31,5%). Ma in continuità con quanto osservato nei quattro anni precedenti, la forma prevalente di società di capitale neo-iscritte nel Mezzogiorno è la società a responsabilità limitata (Srl) semplificata (oltre il 56%), mentre al Centro-Nord prevale la forma più strutturata della Srl ordinaria (oltre il 59% delle neo-iscritte società di capitale; il dato delle Srl semplificate si ferma al 39%).
La Srl semplificata è il modello societario (con requisiti patrimoniali molto ridotti e oneri burocratici e amministrativi minimi) introdotto dal “Salva Italia” nel 2012 per stimolare l’imprenditorialità giovanile. Dalla sua introduzione, lo strumento ha avuto molto successo, soprattutto nel Mezzogiorno, dove sono localizzate ben il 42% delle Srl semplificate italiane.
La crescita molto sostenuta delle Srl semplificate al Sud potrebbe essere considerata come un primo (per quanto timido) segnale dell’auspicabile inversione di tendenza del sistema imprenditoriale meridionale verso l’adozione di forme societarie più complesse e, dunque, di aziende più strutturate (si veda, ad esempio, Rapporto PMI Mezzogiorno 2017). Ma quest’interpretazione appare quantomeno prematura. Piuttosto, la grande diffusione delle Srl semplificate unipersonali, e il calo progressivo delle imprese individuali, sono indizi convergenti di un uso distorto dello strumento agevolativo che, anziché favorire attività imprenditoriali con reali prospettive di crescita, finisce per essere impiegato come espediente per godere del privilegio di irresponsabilità sul capitale di rischio a fronte del versamento di un conferimento anche esiguo (Fondazione Nazionale dei Commercialisti).
In definitiva, la nascita di nuove imprese è senz’altro un segnale di vitalità da non sottovalutare in un’area dal noto deficit strutturale di iniziativa privata. D’altra parte, se dalla crescita della numerosità delle imprese si vuole cogliere un segnale significativo di ripartenza, la “qualità” delle nuove attività imprenditoriali va valutata attentamente. L’assenza della manifattura dai settori interessati dalla creazione di nuove imprese, e la prevalenza di forme societarie poco strutturate, sono aspetti da considerare nella dinamica, pur positiva, della natalità imprenditoriale al Sud.