Sul tasso di mortalità del COVID-19 in Italia. Il tasso di mortalità da Covid19 è molto diverso sia tra paesi sia tra le regioni Italiane. In Italia, la correlazione che esiste tra il tasso di mortalità e il numero di tamponi per contagiato e le interpretazioni che ne derivano suggeriscono che fare i tamponi in massa sarebbe un’auspicabile azione di politica sanitaria al fine di frenare l’epidemia e, forse, renderla meno letale.
Il tasso di mortalità del COVID-19 è in Italia è anormalmente elevato. La figura 1 mostra le differenze fra i tassi di mortalità dei paesi che hanno ormai cifre di contagi dell’ordine almeno di 10.000 casi.
Si va da un minimo di 0,2% della Germania al dato massimo italiano che è dell’8,3%, ossia 40 volte superiore al dato tedesco per passare, poi, in ordine, dal dato Coreano dell’1,1%, al dato degli Usa dell’1,6%, al 2,9% della Francia, al 4% della Cina e al 4,3% della Spagna. Se escludiamo Cina e Corea, gli altri paesi hanno una struttura demografica e sociale abbastanza simile e, almeno per i paesi europei sistemi sanitari per molti versi sovrapponibili. Un tasso di mortalità 40 volte inferiore è un dato che non può passare inosservato.
Se si differenziano i tassi di mortalità delle regioni italiane, si hanno anche in questo caso delle forti differenze che sono difficili da spiegare. La tabella e la figura 2 mettono in luce queste differenze.
Al netto di alcune regioni per le quali i dati sono ancora (fortunatamente) pochi, ma che, tuttavia, nel loro insieme indicano una linea di tendenza, non si può non notare la rilevante differenza nella mortalità fra l’Emilia Romagna e la Lombardia con valori a due cifre (11,1% e 10,1%) e il dato del Veneto che è del 2,9% in linea con la media dei paesi avanzati.
Considerato che la struttura demografica di Veneto, Emilia Romagna e Lombardia è abbastanza simile, la differenza non può essere legata a questo. Un’ipotesi potrebbe essere correlata alla diversa incidenza del numero di tamponi fatti. La figura 3 evidenzia queste differenze in relazione al tasso di mortalità. I dati mostrano una forte correlazione fra il numero di tamponi per contagiato e il tasso di mortalità: nelle regioni in cui il tasso di tamponi per contagiato è elevato, la mortalità è bassa. Si veda, per esempio, Trentino Alto Adige, Veneto, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna e, last but non least, la Calabria. Le regioni con i tassi di mortalità più elevati (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna e Marche) hanno i più bassi tassi di tamponi per contagiato.
L’interpretazione di questa evidenza empirica ci porta a due ipotesi non alternative. La prima ipotesi è che la maggiore mortalità sia causata dal fatto che a causa dei minori controlli emergono solo i casi più gravi e che, quindi, dal computo dei contagiati, che costituisce il denominatore del tasso di mortalità, manchino molte unità. I contagi sarebbero, quindi, di molto superiori ai contagi rilevati. Questo non sarebbe in ogni caso una buona notizia, perché significa che molti asintomatici o pauci-sintomatico non sanno di esserlo e continuano ad infettare. E probabilmente una parte di spiegazione del fenomeno questa circostanza la può dare. Ma la seconda interpretazione del dato, che può essere complementare alla precedente, è anche che il basso numero di tamponi produce un ritardo nel tempo medio di individuazione e di eventuale ospedalizzazione del paziente e questo ritardo può anche essere una causa della maggiore mortalità perché impedisce cure tempestive che potrebbero migliorare la prognosi, soprattutto per i pazienti con più comorbilità.
Da queste considerazioni non si può che trarre una conclusione che è quella che se il numero di tamponi per contagiato fosse aumentato avremmo maggiori possibilità di controllare l’epidemia e, forse, anche di renderla meno letale. La politica, quindi, dell’aumento del numero di tamponi estendendola agli asintomatici può essere un’arma vincente nei confronti del COVID-19.