Aree Interne: una nostalgia delle cattedre ambulanti?
di Angelo Palmieri* e Vittorio Tarparelli**
“Torniamo all’antico: sarà un progresso”. Lo scriveva Giuseppe Verdi, in una lettera a Francesco Florimo, compositore e bibliotecario del Regio Conservatorio di Musica di Napoli, suggerendo una pedagogia fatta di contrappunti e canoni alla maniera antica. Noiosa e pedante, ma utile per “piegare le note” nella direzione voluta da chi la musica la scriveva. Non, dunque, un principio di inerzia, ma la proposta di un incisivo modello di impegno culturale e morale.
Il passato, nel caso sopracitato, si riconnetteva alle cattedre ambulanti, per lungo tempo la più importante istituzione agraria – dopo le università e le scuole tecniche – del Regno. Il loro obiettivo era quello di diffondere, in un mondo rurale appena uscito dal un lungo medioevo, le più avanzate conoscenze agronomiche. I risultati furono notevoli. Questa iniziativa di modernizzazione, di nascita dal basso, andava a determinarsi in un contesto di effettiva debolezza dell’iniziativa pubblica. Basti pensare che la prima legge sull’istruzione agraria si concretizzava nel 1885, come dire ben 25 anni dopo l’Unità d’Italia. Non poche le ragioni che favorirono la nascita delle cattedre ambulanti; il mondo agricolo mal tollerava la condizione di marginalità anche relativamente alla condizione dei piccoli agricoltori, mentre si registrava un forte impulso proveniente dalla mobilitazione del mondo dei produttori e degli imprenditori agricoli attraverso la forma associativa, con evidenti diversificazioni per aree territoriali (Fumi, 2016). E in effetti al Sud le cattedre nasceranno prevalentemente per iniziativa statale. Dunque è interessante notare che nei decenni tra fine ‘800 e primo ‘900 l’intento non era solo quello di introdurre innovazioni previa assicurazione di assistenza tecnica agli agricoltori, ma era anche quello mirante a valorizzare il potenziale agricolo locale, trasferendo know how col fine di soddisfare in tal modo i bisogni economici e sociali delle comunità locali. Il legame ben saldo tra cattedre ambulanti e comunità locale traeva origine dall’essere nate fuori dall’ordinamento per volontà dei produttori. Solo più tardi sopraggiunsero il riconoscimento statale e i primi sussidi. Ma vale la pena soffermarsi, magari evocando un po’ provocatoriamente il tema delle attuali politiche a favore delle aree interne, sulla metodologia sottesa alle cattedre ambulanti ovverosia sull’idea che a muoversi debba essere la conoscenza e chi ha il compito di produrre conoscenza utile. Infatti il “cattedratico ambulante” ama comunicare e rifugge dal lavoro chiuso in ufficio. L’obiettivo delle cattedre ambulanti di agricoltura, peraltro tanto agognate dagli agricoltori desiderosi d’istruirsi maggiormente e di applicare nelle proprie aziende i nuovi portati della scienza agricola, era anche quello di raggiungere il mondo agricolo nelle sue componenti più lontane “sbriciolando le conoscenze” (Fumi, 2016), promuovendo una divulgazione con strumenti nuovi e incentivando attraverso la promozione di conferenze serali e momenti festosi nelle cascine gli abitanti delle comunità locali ai mercati. In definitiva creando un legame di fiducia con gli abitanti attraverso il dialogo diretto e costante, frequentando le campagne, interpretandone le necessità concrete, adattando le innovazioni provenienti dall’esterno in modo da renderle accettabili. In definitiva l’istituzione della cattedra ambulante concorse non poco, unitariamente ad altre istituzioni agrarie, a scongiurare una progressiva marginalizzazione della società rurale.
Gli ambulanti della conoscenza e i bandi di Procuste
Ma oggi quali suggestioni offrono le cattedre nella logica dei bandi pensati con l’intento di arrestare il processo di marginalizzazione e miranti a favorirne un ripopolamento? Un aspetto delle cattedre era quello di innescare processi di innovazione non semplicemente trasferendo competenze e tecnologie, ma di agire una mediazione con chi il territorio lo costruiva e lo viveva, determinando una vera alfabetizzazione dello sviluppo. C’era un movimento verso il concreto, le datità, le cose che si paravano dinanzi e che mal volentieri sopportavano le medesime ricette: “one size doesn’t fit all”.
I bandi – con le rispettabili eccezioni – si adattano ad una logica che annienta le differenze, le specificità e presuppongono competenze specialistiche notevoli. Ecco perché, in occasione del bando PNRR dei borghi, alle porte dei sindaci dei piccoli comuni sono improvvisamente apparsi all’orizzonte diversi Dottor Dulcamara pronti a vendere la propria boccetta di Elisir. Le rinnovate cattedre avrebbero ben altra funzione che quella di vendere un servizio di consulenza buono a vincere il bando, poco importa se atti ad innescare futuri possibili. Le competenze ci sono, la tecnologia anche, o comunque potrebbe esser facilmente disponibile. C’è da far girare per le terre marginali nuovi software, ricomporre dizionari e sillabari, ricostruire enciclopedie che innestano e lasciano interagire la conoscenza più avanzata con i saperi locali. Una “missione” in piena regola per ricercatori ed esploratori, università e centri di ricerca pubblica, così da costruire un modello molecolare di rinascimento dell’Italia dell’osso capace di ficcare lo sguardo nelle opalescenze di una realtà appresa troppo spesso dalla sola interfaccia di Excel… Tanto non è prevista alcuna verifica day by day. Giorno dopo giorno? Ma sì, tiriamo a campare. Poco importa la concretezza reale di un progetto.
*Sociologo
**Giornalista