Il Reddito di Cittadinanza è uno dei tanti sintomi del malore del paese Questa nota riporta il testo dell’intervista rilasciata da Francesco Aiello a Giovanni Pastore della Gazzetta del Sud. Per motivi si spazio, l’intervista è stata pubblicata in versione ridotta nell’edizione della Gazzetta del sud del 21 Novembre, ossia prima dell’approvazione della Legge di Bilancio 2023 da parte del Governo Meloni. Qua si ripropone il testo integrale dell’intervista.
Che ripercussioni potrebbe avere secondo lei una revisione radicale del RdC?
Sarebbe una soluzione dolorosa per molte famiglie Italiane e, in particolare, meridionali, in quanto il sostegno al reddito che stanno ricevendo è utilizzato, nella quasi totalità dei casi, per arginare problemi di povertà assoluta e/o di mancata occupazione. In tempi di crisi economica, pur con i vincoli di una legge di bilancio che ha pochi gradi di manovra, è poco razionale immaginare di attuare politiche economiche restrittive, a danno, peraltro, della fascia più debole del paese, ossia i nuclei familiari poveri.
Quali modifiche apporterà, secondo lei, il Governo Meloni al RdC?
Difficile prevederlo, dato che le ipotesi cambiano di giorno in giorno. Personalmente credo che avremo un nuovo RdC, ma non meno importante dell’attuale rispetto alle risorse finanziarie che mobiliterà. I motivi sono legati ai due pilastri del RdC (povertà e occupabilità) che richiedono sforzi addizionali per renderne efficacia l’implementazione.
In che senso?
Se la lotta contro la povertà assoluta sarà una priorità del paese, i fondi necessari per contrastarla dovranno essere maggiori di quelli erogati oggi, in quanto il RdC intercetta solo una parte dei poveri in senso assoluto. Si pensi che l’Italia, sottoscrivendo l’Agenda 2030, si è impegnata a ridurre di almeno la metà la quota di individui che vivono in povertà. Ciò significa che nei prossimi anni in Italia le famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta dovranno passare dal 7.5% del 2021 al 3,75% dell’obiettivo 2030 (a Sud, dal 10% al 5%). Un obiettivo ambizioso che difficilmente sarà conseguito, ma ricordarlo aiuta a capire meglio cosa fare per rendere credibili gli annunci di politica economica legati al RdC e alla modifica delle azioni di contrasto della povertà.
Rispetto al secondo pilastro del RdC, l’orientamento del governo è di toglierlo ai beneficiari che sono occupabili, ossia che sono in grado di lavorare.
Sul piano teorico, sono d’accordo anche io per sanzionare coloro che rifiutano richieste di lavoro congrue, ossia a salari “equi” e per attività lavorative in linea con il loro profilo professionale. Tuttavia, la debolezza di questa ipotesi è che dovremmo sapere quanti sono questi casi. Nessuno lo sa, ANPAL e INPS compresi. I numeri di cui si parla in questi giorni – 660mila percettori che non lavorano – includono di tutto, tra cui i “furbetti” (da punire), ma anche molte persone a bassa occupabilità. Sono sì in età lavorativa, ma a bassa professionalità e, quindi, difficilmente occupabili. Le politiche attive che necessitano non sono di immediata applicazione e sono costose.
Quindi?
Nel breve periodo non succederà alcunché, ammesso che prevarrà la logica economica e non la guerra ideologica contro l’aiuto al reddito dei nuclei familiari poveri. Nella fase di transizione, il paese dovrà dotarsi di un serio impianto di politiche attive per formare gli attuali “occupabili” e questo processo durerà del tempo e costerà. Ora, se la fonte di finanziamento sarà diversa dall’attuale – e ha qui senso utilizzare fondi europei – cambia solo la composizione della spesa. In prospettiva, gli attuali percettori riceveranno un aiuto al reddito condizionato alla formazione. Non intravedo, in questa fase, altri significativi cambiamenti.
Stiamo posticipando la soluzione del problema?
Si. La questione centrale è capire cosa succederà alla fine del percorso formativo. Avremo più persone formate, ma non è detto che tutte troveranno lavoro. Una sfida delle politiche attive sarà di professionalizzare persone in grado di occupare posizioni che oggi sono “vacanti”, ossia posti di lavoro per i quali il datore di lavoro cerca, ma non trova candidati (nel III trimestre del 2022 i posti vacanti sono il 3%). Una sfida difficile perché in molti casi i profili richiesti dalle imprese sono ad elevata specializzazione e sono concentrati, peraltro, nelle regioni centro-settentrionali. Quale sarà, quindi, il destino di coloro che tra 8-12 mesi a Sud saranno presi a carico dalla rete dei Centri per l’Impiego o dalle agenzie private, ma che non troveranno lavoro? È giusto che continuino a ricevere sostegno se sono disoccupati per motivi slegati dalla loro volontà? Sfugge a tutti la causa di questo dilemma, perché siamo concentrati sui sintomi, ma non riflettiamo sulle cause del problema e, quindi, non le rimuoviamo.
Si spieghi meglio.
In estrema sintesi, se si invertisse il declino che da 30 anni osserviamo in Italia e se si interrompesse la dicotomia Nord-Sud, non avremmo bisogno del reddito di cittadinanza, perché avremmo un’economia in espansione in grado, forse, di rendere anche più unito il paese. Occorre capire che il male principale non è l’aiuto ai poveri e ai disoccupati, ma la bassa crescita dell’economia italiana e le disparità territoriali dello sviluppo. È complicato creare nuova occupazione in un paese disunito e che stenta a crescere.
Qual è stato l’impatto del RdC in questi primi anni in Calabria?
I dati segnalano in modo incontrovertibile l’efficacia dello strumento in termini di lotta alla povertà e ai disagi della pandemia. Da quando è stato attivato, in Calabria i nuclei percettori del RdC hanno ricevuto circa 200 milioni di euro, in media 550 euro al mese, per una platea di persone che oscilla da 178mila nel 2019 a 225mila nei primi nove mesi del 2022 (il picco si è avuto nel 2021 con ben 240mila persone coinvolte).
Ma quanto sono le famiglie con sostegno rispetto al totale dei nuclei familiari
In 59 comuni calabresi, una famiglia su cinque è beneficiaria del RdC, con evidenti effetti sulla tenuta sociale di quelle comunità. Nelle principali città calabresi, questa quota oscilla tra il 16% e il 22%. Si tratta di numeri ragguardevoli: nel 2022 a Reggio Calabria i nuclei beneficiari del sostegno sono 13156 (equivalenti al 18% delle famiglie residenti), a Catanzaro i nuclei con RdC sono 6565, pari al 18% delle famiglie del capoluogo di regione, a Cosenza 6363 famiglie ricevono il RdC (21%), seguono Crotone (5783 nuclei con RdC; 22,8% del totale), Corigliano-Rossano (5680; 18.8%), Rende (1933; 11%) e Vibo Valentia (1931; 16%) (Figura 1). L’effetto è di tamponare situazioni di disagio sociale ed è altamente probabile che questo obiettivo sia stato ampiamente perseguito. Non dimentichiamo, infine, che i trasferimenti RdC generano effetti moltiplicativi sul reddito regionale/nazionale tramite il canale dei consumi. È sufficiente tutto questo per innescare sviluppo? Certamente no, ma in fasi di crisi non esistono alternative valide a sostegno delle persone povere e/o non occupate.
Il sistema di accoglimento delle domande presenta delle falle. L’ultima indagine ha portato a smascherare altri 34 furbetti sullo Jonio cosentino: come si fa ad evitare questi squarci che si spalanca nella rete assistenziale?
È un tema ad elevato impatto mediatico, ma nulla di più. Quando si applicano misure di politica economica così ampie, è fisiologico che ci siano comportamenti opportunistici da parte dei potenziali beneficiari. Non è certo per questa ragione che deve essere messo in discussione l’impianto dello strumento e la ragionevolezza della sua revisione. È come se volessimo eliminare la regola di fermarsi agli stop perché qualche sprovveduto passa con il rosso. È sufficiente migliorare i controlli sia nella fase di presentazione della domanda sia durante il periodo di fruizione del beneficio. Di fatti, l’INPS è impegnata in modo rilevante su questo fronte, tant’è che il RdC è la misura più monitorata tra quelle gestite dall’ente. I risultati sono rilevanti: nel 2021 in Calabria sono state revocate o sono decadute 27000 domande di reddito e pensione di cittadinanza. Nei primi 9 mesi del 2022 sono 16000. Le cause più ricorrenti di questi provvedimenti sono lo svolgimento di lavoro in nero, l’assenza di requisiti di residenza, false dichiarazioni o omissione di comunicazioni obbligatorie.
Giovanni Pastore, Gazzetta del Sud
Francesco Aiello, Presidente di OpenCalabria