Alcune considerazioni sul reddito di cittadinanza

Il Reddito di cittadinanza è uno dei cavalli di battaglia della manovra finanziaria che il Parlamento dovrà approvare nei prossimi mesi. Regna, pero’, una certa incertezza sulla configurazione dello strumento in quanto nei dibattiti si parla indistintamente e in maniera anche abbastanza confusa di reddito di cittadinanza, reddito minimo e di misure di contrasto alla povertà. Occorre, innanzitutto, chiarire che reddito di cittadinanza puro e reddito minimo (quello che è proposto dal governo in carica e che impropriamente viene definito reddito di cittadinanza) non sono sinonimi. Il reddito di cittadinanza è una misura universale, slegata da ogni tipo di vincolo o impegno. Il reddito minimo, invece, ha l’obiettivo dell’inclusione sociale, pone, quindi, dei vincoli, presuppone degli impegni e, soprattutto, è legato ad una particolare condizione del beneficiario. Tralasciando il reddito di cittadinanza puro che, proprio perché misura universale, ha dei costi abnormi, occorre analizzare con realismo contabile i margini concreti per calibrare e realizzare una misura di reddito minimo garantito (la forma scelta dal governo sotto il nome di reddito di cittadinanza), selezionando, quindi, i destinatari. L’obiettivo è quello di assicurare una garanzia reddituale minima ai cittadini che ne sono sprovvisti per consentire il soddisfacimento di quei bisogni essenziali senza i quali, in ultima analisi, non si può parlare di pieno esercizio della democrazia dietro, però, impegni precisi in termini di obiettivi di inclusione sociale. In Italia il livello di povertà assoluta è del 7,4% delle famiglie, mentre quella di povertà relativa è del 12,7%.  Una misura di reddito di cittadinanza puro costerebbe in Italia dai 100 ai 150 miliardi di euro l’anno e ben difficilmente queste somme si possono reperire nei bilanci pubblici dei prossimi anni.  Un reddito minimo diretto ai disoccupati e alle famiglie in condizione di povertà assoluta costa fra gli 8 e i 10 miliardi di euro e potrebbe, a certe condizioni, diventare sostenibile, soprattutto se diluito in più annualità, o se legato ad una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali.

La proposta del governo sconta, però,  l’ambiguità di fondo di immaginare uno strumento unico che si rivolga a beneficiari diversi. Il reddito minimo garantito, per essere efficace deve essere diviso in due grandi tronconi:

  1. un salario d’ingresso;
  2. un reddito minimo finalizzato all’inclusione per coloro che sono in situazione di povertà assoluta, dietro assunzione di impegni precisi e erogato anche nella modalità in kind.

Il salario d’ingresso è lo strumento, oltre che sostenibile e con un impatto sui bilanci limitato, con maggiori effetti in quelle regioni in cui la disoccupazione è più elevata. Se fosse stato inserito in una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali o, nel caso delle regioni che utilizzano i fondi strutturali su cui potrebbe scaricarsi gran parte dell’onere, potrebbe addirittura essere una misura a costo zero.

Che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia, sia perverso e in alcuni casi distorsivo è facile da dimostrarsi. Basti pensare al meccanismo dell’indennità di disoccupazione agricola che, nata alcuni decenni fa, ha svolto una funzione molto importante nel ridare dignità al lavoro agricolo, ma negli ultimi 20 anni è di fatto diventata una misura di indebita integrazione al reddito. Una sorta di reddito di cittadinanza ante litteram, ma a vantaggio di una platea ristretta popolata da molti furbi. In Calabria, ad esempio, queste erogazioni raggiungeva negli ultimi anni una platea vicina a 100.000 unità (ossia circa 1/6 della forza lavoro complessiva)

La misura del salario d’ingresso, oltre al basso impatto sui bilanci, ha anche il pregio di essere una misura incentivante ed efficace. E’ incentivante perché può essere usata una sola volta e per un periodo limitato di tempo e perché mette a disposizione di chi cerca lavoro tutta una serie di strumenti che dovrebbero facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro. Si tratta di erogare al disoccupato, per un periodo di 12-18 mesi, un’indennità a fronte della quale dovrà fornire un livello minimo di servizi alla collettività e nel contempo fornirgli una dote sotto forma di bonus formativo e/o bonus per l’assunzione che nel caso in cui venga assunto potrebbe esser utilizzato dall’impresa per ottenere sgravi contributivi. I punti caratterizzanti l’efficacia dello strumento sono:

  1. la temporaneità;
  2. la non rinnovabilità;
  3. il contenuto formativo;
  4. l’attivazione di strumenti di politiche attive del lavoro.

I primi due elementi si possono stabilire per legge, ma il terzo e il quarto punto dipendono dall’efficienza del sistema di transizione al lavoro che in Italia denota dei livelli tra i più bassi tra i paesi industrializzati. Prevedere in pochi mesi di riformare un sistema, rendendolo efficiente, a dispetto di numerosi tentativi falliti negli ultimi 20 anni è sicuramente azzardato. Il rischio è che, senza la transizione al lavoro, il salario minimo d’ingresso (e quindi il reddito di cittadinanza proposto dal governo) altro non sia che la riproposizione di un vecchio modello di intervento degli anni novanta del secolo scorso che era stato chiamato con il nome evocativo di Lavori Socialmente Utili e che tanti danni ha prodotto e continua a produrre nelle regioni meridionali. Se, in sostanza, gratti il reddito di cittadinanza come proposto dal governo quello che resta è lo strumento del Lavoro Socialmente Utile.

Tuttavia, il progetto del governo contiene un’altra ambiguità di fondo. Viene proposto, infatti, di mischiare una politica attiva (salario di ingresso) con un reddito minimo finalizzato alla lotta alla povertà, immaginando di erogare un certo ammontare di denaro sotto forma di card (controllando i consumi) a tutti coloro che in ultima analisi seguono un percorso di transizione al lavoro. A ben guardare questa commistione snatura i due strumenti rendendoli potenzialmente poco efficaci, mentre potrebbero tranquillamente essere complementari, se erogati in maniera disgiunta a beneficiari differenti. Un reddito minimo finalizzato all’inclusione per coloro che sono in situazione di povertà assoluta erogato attraverso una card o un bancomat è uno strumento di lotta alla povertà, il salario d’ingresso è una politica attiva per il lavoro. 

Diversi, quindi, sono i destinatari, diversi sono gli strumenti, diversi sono i risultati. In assenza di questa diversificazione degli strumenti la proposta di reddito di cittadinanza del governo rischia di essere un ibrido che non faciliterà la transizione al lavoro, non combatterà la povertà, ma farà solo crescere il numero dei lavoratori in nero e il numero dei furbetti del bancomat di cittadinanza.

 

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