Quattro sono gli aspetti economici essenziali del “problema Calabria”: 1) un tasso di occupazione inferiore al 40%, a fronte di un valore fisiologico pari a circa il 70%, e un tasso di irregolarità del lavoro pari a quasi il triplo di quello medio del Nord dell’Italia; 2)un disavanzo strutturale negli scambi di merci e servizi con l’estero e le altre regioni italiane pari a circa il 25% del prodotto interno lordo; 3) un disavanzo primario delle amministrazioni pubbliche pari a circa il 25% del prodotto interno lordo; 4) trasferimenti fiscali automatici (“residuo fiscale”) dalle regioni del Nord dell’Italia per un valore pari a circa il 25% del prodotto interno lordo[1].
Questi tre aspetti sono collegati per il fatto di derivare da una medesima causa: l’insufficiente competitività delle produzioni calabresi di beni a mercato non esclusivamente locale (principalmente manufatti e alcune tipologie di servizi). Questa carenza di competitività provoca il disavanzo persistente negli scambi di merci e servizi con l’estero e le altre regioni italiane e il basso tasso di occupazione, concentrato principalmente nelle produzioni di beni a mercato non esclusivamente locale. Il basso tasso di occupazione, a sua volta, è la causa principale del fortissimo disavanzo primario delle amministrazioni pubbliche, per il fatto che la spesa pubblica primaria per abitante è a un livello “normale”, mentre le entrate fiscali per abitante, essendo collegate in modo progressivo al reddito per abitante, mantenuto basso soprattutto a causa del bassissimo tasso di occupazione regolare, sono a un livello molto più basso del normale.
Il processo di determinazione dei livelli di produzione, reddito e occupazione in Calabria può essere illustrato mediante un semplice modello keynesiano in cui il livello della produzione e del reddito in Calabria (Y) è determinato dalla domanda effettiva di beni prodotti in Calabria:
Y = (1-Mi)I + (1-Mgc)Gc +(1-Mgi)Gi + (E) +(1-Mc)C(Y-T)
I indica la domanda di beni per investimenti privati in Calabria, Gc la spesa per consumi pubblici in Calabria, Gi la spesa per investimenti pubblici in Calabria, E la domanda di beni prodotti in Calabria proveniente dall’estero e dalle altre regioni italiane, C la domanda di beni per consumi privati dei calabresi, T l’imposizione fiscale netta (imposte lorde meno trasferimenti pubblici) a carico dei calabresi, Mi, Mgc, Mgi, Mc, indicano le quote della domanda interna calabrese di beni per investimenti privati, per consumi pubblici, per investimenti pubblici e per investimenti privati che si rivolge a imprese operanti all’estero o in altre regioni italiane. La fonte autonoma di gran lunga preponderante della domanda effettiva di beni prodotti in Calabria è rappresentata dalla domanda di beni per consumi e per investimenti pubblici. Caratteristiche tipiche dell’economia calabrese dal punto di vista della determinazione della domanda effettiva di beni rivolta a imprese operanti in Calabria sono tre, una positiva e due negative. La caratteristica positiva è rappresentata dal fatto che il valore dell’imposizione fiscale netta, che, riducendo il reddito disponibile, ha un effetto negativo sulla domanda di beni da parte dei calabresi, è molto minore del valore della spesa pubblica in Calabria. Le caratteristiche negative sono il valore estremamente basso della domanda esterna di beni prodotti in Calabria e i valori molto più elevati del normale di tutte le propensioni a importare, il che fa sì che una quota relativamente molto elevata della domanda di beni, sia pubblica sia privata, che ha origine in Calabria attivi produzione, reddito e occupazione al di fuori della Calabria.
Dal punto di vista teorico, un aumento della domanda effettiva di beni prodotti in Calabria potrebbe essere perseguito mediante un ulteriore aumento della già fortissima differenza fra spesa pubblica e imposizione fiscale in Calabria, oppure mediante un aumento della domanda esterna di beni prodotti in Calabria e/o una diminuzione dei valori delle propensioni a importare.
Purtroppo, nessuna di queste soluzioni appare politicamente praticabile.
Rispetto all’ipotesi di un ulteriore aumento della differenza G-T (“residuo fiscale” a favore della Calabria), attualmente pari a circa il 30% del PIL della Calabria, c’è l’opposizione fortissima delle regioni del Nord dell’Italia (in particolare Lombardia e Veneto) che finanziano la parte della spesa pubblica in Calabria non coperta da imposte riscosse in Calabria. Un aumento della domanda esterna di beni prodotti in Calabria e una diminuzione delle propensioni a importare dei calabresi, secondo le analisi svolte da tutti i grandi economisti internazionali, da Ricardo a Meade, a Krugman, potrebbe essere perseguito mediante una significativa riduzione del prezzo del lavoro per le imprese che producono in Calabria beni che possono essere esportati o che competono con le importazioni, a condizione però che le retribuzioni di chi lavora in queste imprese non sia minore delle retribuzioni nette di chi lavora in imprese operanti in settori a domanda esclusivamente locale (costruzioni, commercio, gran parte degli altri servizi privati, servizi pubblici).
Dal punto di vista tecnico questo risultato potrebbe essere ottenuto con diverse modalità. La più lineare sarebbe una riduzione in Calabria di circa un terzo delle retribuzioni monetarie legali in tutti i settori produttivi, sia pubblici sia privati. In termini reali la riduzione per gli occupati sarebbe in realtà di circa il 10%, poiché la riduzione del costo del lavoro nelle imprese a mercato locale sarebbe compensata da una corrispondente riduzione dei costi, e quindi dei prezzi di equilibrio dei beni prodotti in questi settori. Dal punto di vista del reddito medio delle famiglie calabresi essa sarebbe più che compensata da un aumento di circa il 50% del tasso di occupazione (dall’attuale 40% a circa il 60%). Una soluzione di questo tipo, pur essendo stata proposta autorevolmente sia dall’OECD, sia dalla Commissione europea, sia nel libro bianco Biagi, sia da autorevoli economisti (Padoa Schioppa, Alesina, Boeri, Ichino, ecc.) ha trovato insuperabili opposizioni politiche e sindacali, soprattutto per quel che riguarda la sua, necessaria, estensione al settore pubblico.
Una soluzione alternativa potrebbe essere costituita da una sorta di “svalutazione fiscale” attuata mediante sgravi fiscali sul costo del lavoro impiegato in Calabria in imprese operanti in settori esposti alla concorrenza esterna. Questi sgravi potrebbero addirittura autofinanziarsi automaticamente poiché il maggior reddito generato dall’aumento di competitività nel settore dei beni internazionali attiverebbe un aumento di domanda di beni a mercato locale e quindi un aumento di produzione, occupazione e reddito nei settori protetti dalla concorrenza esterna, con conseguente aumento delle entrate fiscali per imposte sia dirette (IRPEF) che indirette (IVA), e una diminuzione della spesa pubblica di natura assistenziale (sussidi di disoccupazione, pensioni sociali, esenzione da ticket sanitari e tasse scolastiche, ecc.).
Inspiegabilmente, il principale ostacolo di natura politica rispetto a una “svalutazione fiscale” finalizzata a stimolare lo sviluppo dell’occupazione e del reddito in Calabria vengono dalla Commissione europea, e in particolare dalla Direzione delle politiche a tutela della concorrenza, sulla base di una interpretazione molto restrittiva del articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Secondo l’articolo 107 del TFUE, che ha ripreso l’articolo 87 del Trattato Istitutivo della Comunità Europea (TCE): “ … sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza. …….. possono considerarsi compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione …….”
In Italia consistenti sgravi fiscali, o meglio contributivi, nella forma di fiscalizzazione degli oneri sociali per le attività produttive esposte alla concorrenza esterna (in particolare attività manifatturiere) erano stati introdotti nei primi anni settanta del ventesimo secolo per compensare gli effetti negativi dell’abolizione delle differenziazioni salariali territoriali (“gabbie salariali”) per la competitività delle imprese del Mezzogiorno. Per quasi 20 anni la Commissione Europea, pur non approvandoli esplicitamente, non intervenne decisamente per chiederne l’abolizione. L’orientamento cambiò verso la fine degli anni ottanta, quando fu aperta una procedura d’infrazione contro l’Italia per aiuti di Stato non autorizzati. Dopo diversi anni di trattative la controversia fra l’Italia e la Commissione Europea fu conclusa a gennaio del 1995 con l’accordo Pagliarini-VanMiert, che prevedeva una sanatoria per gli sgravi contributivi concessi precedentemente, a condizione che l’Italia terminasse entro un triennio questo sostegno fiscale automatico, generalizzato e persistente alle imprese manifatturiere del Mezzogiorno.
La contrarietà della Commissione Europea a sgravi fiscali automatici e persistenti per i lavoratori impiegati nelle imprese manifatturiere del Mezzogiorno si basa sul convincimento che sia inefficiente consentire che rimangano sul mercato imprese manifatturiere nel Mezzogiorno meno efficienti di quelle del Nord dell’Italia, compensando la loro minore efficienza mediante sgravi fiscali. La Commissione Europea ritiene che soltanto temporaneamente possano essere consentiti sgravi fiscali nel caso di incrementi occupazionali, e che fondamentalmente la minore efficienza delle imprese manifatturiere del Mezzogiorno non debba essere compensata mediante sgravi fiscali ma debba essere superata mediante interventi strutturali volti ad eliminare le cause della minore produttività delle imprese del Mezzogiorno. Il problema è che l’esperienza degli ultimi 30 anni ha mostrato l’impossibilità di superare il gap di produttività fra Nord e Sud dell’Italia mediante interventi di natura strutturali, mentre molte esperienze storiche hanno mostrato chiaramente che nelle attività manifatturiere operano potenti processi di “learning by doing”, e che quindi incentivi fiscali che consentono a imprese relativamente inefficienti di restare operative sono utili per aumentare la produttività delle stesse imprese.
E’ ovvio che la soluzione migliore sarebbe riuscire a creare lavoro in Calabria per circa 200 mila persone in attività produttive a mercato nazionale o internazionale in grado di competere non sul prezzo ma sulla qualità dei prodotti e quindi competitive anche con l’attuale livello del costo del lavoro. Il problema è che questa capacità in Calabria esiste attualmente soltanto per circa 30 mila lavoratori. L’alternativa vera è quindi fra la situazione attuale, con un tasso di occupazione pari a poco più della metà di quello fisiologico, con effetti fortemente negativi, non soltanto dal punto di vista di vista economico, ma anche per quel che riguarda le aspirazioni anche extraeconomiche delle persone, la fiducia nelle istituzioni democratiche, l’efficacia delle attività di contrasto della criminalità[2], e una situazione di normalità occupazionale perseguita mediante sgravi fiscali automatici idonei a sostenere in Calabria la competitività di attività produttive a mercato nazionale o internazionale in grado di impiegare circa 200 mila calabresi con un livello di produttività inferiore di circa il 30% rispetto al Nord dell’Italia.
[1] Alessandra Staderini ed Emilio Vadalà, Bilancio pubblico e flussi redistributivi interregionali: ricostruzione e analisi dei Residui fiscali nelle regioni italiane, in: Banca d’Italia, Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, giugno 2010, p. 602.
Banca d’Italia, Economie regionali n. 43, Dicembre 2015, pag. 20.
[2] Amartya Sen, The penalties of unemployment, Banca d’Italia, 1997.