Nel dibattito sulle politiche economiche ai tempi della “grande crisi” dei primi anni duemila, l’attenzione è stata concentrata principalmente sugli effetti depressivi delle politiche di austerità derivanti per i paesi dell’Unione europea dal “patto di stabilità e crescita” e poi dal “fiscal compact”, e sull’importanza del rilancio dei consumi (privati) per la ripresa della crescita economica.
Questo dibattito sembra essere tuttavia viziato alla radice da una nozione analiticamente scorretta di austerità, definita pressoché esclusivamente in termini di saldi complessivi di finanza pubblica. In realtà una nozione analiticamente corretta di austerità, dovrebbe far riferimento principalmente al valore del risparmio complessivo, pari alla somma degli investimenti interni (pubblici e privati) e degli investimenti netti esteri. Non credo che si possa definire correttamente “austero” un paese che ha un avanzo complessivo del bilancio pubblico, ma che ha un risparmio complessivo negativo, che comporta una diminuzione della dotazione di capitale (fisico ed umano) disponibile per le generazioni future.
Se si fa riferimento a una nozione corretta di austerità, definita in termini di ciò che la generazione corrente lascia in eredità alle generazioni future, la debolezza dei consumi privati negli anni della grande crisi dei primi anni duemila non appare più un problema tale da provocare necessariamente una dinamica negativa della produzione e dell’occupazione complessiva, ma una grande opportunità per sostenere la crescita tramite un rilancio degli investimenti pubblici e privati, sia in capitale fisico sia in capitale umano, finanziabili a tassi d’interesse storicamente estremamente bassi.
Per quel che riguarda in particolare il Mezzogiorno, investimenti in capitale umano di grandissima importanza strategica appaiono essere quelli realizzabili attraverso esperienze produttive in settori esposti alla concorrenza esterna (in particolare attività manifatturiere e servizi a mercato non esclusivamente locale). Un tale processo di accumulazione di capitale umano per learning by doing potrebbe essere stimolato nel Mezzogiorno da sgravi fiscali per gli occupati in queste attività, tali da rendere competitiva la loro localizzazione nel Mezzogiorno, nonostante l’attuale differenziale negativo di produttività, derivante anche, e forse principalmente, da una carenza di esperienze produttive.
Ciò richiederebbe tuttavia un radicale mutamento degli orientamenti dell’Unione europea, non nel senso di attenuare le politiche di austerità, ma nel senso di basarle su una nozione corretta di austerità, che riconosca la profonda differenza per le generazioni future fra consumi pubblici e investimenti pubblici, e che riconosca che il capitale produttivo di un paese comprende non soltanto il capitale fisico e il capitale umano acquisibile nelle scuole e nelle università, ma anche il capitale umano acquisibile attraverso processi di learning by doing, e che la carenza di capitale umano responsabile del mancato sviluppo, e addirittura, negli ultimi anni, dell’ulteriore declino del Mezzogiorno riguarda principalmente il capitale umano che può formarsi attraverso esperienze lavorative in attività produttive a mercato non esclusivamente locale.
Oltre a ciò, il sostegno all’occupazione complessiva regolare che ne deriverebbe renderebbe anche più efficace il contrasto alle varie forme di illegalità nelle regioni del Mezzogiorno e, in particolare, in Calabria.