La Brexit, l’Europa e il dittatore benevolo

Drapeaux Berlaymont

Quali saranno le conseguenze economiche della Brexit? Le proiezioni diffuse nei giorni scorsi mostrano risultati molto diversi. Alcuni economisti tedeschi hanno stimato che la Brexit comporterà una caduta del Pil britannico che, in poco più di un decennio, potrebbe raggiungere il 14 per cento. All’opposto, un gruppo di studiosi inglesi (autodefinitisi economisti per la Brexit) ha ipotizzato un effetto positivo sul Pil di circa il 4 per cento, che deriverebbe da un aumento del commercio estero del paese. Questa grande incertezza non deve sorprendere, considerata l’inconsistenza delle previsioni economiche sul medio-lungo termine. È utile, quindi, partire da alcune considerazioni di fatto.

Negli ultimi quindici anni, la crescita economica del Regno Unito è stata maggiore di quella dei principali paesi della Ue. Il reddito pro capite e i consumi delle famiglie sono aumentati più che in Francia e in Germania, mentre in Italia sono diminuiti. Tale andamento è spiegato da una serie di caratteristiche dell’economia britannica, ma anche dal fatto che il Regno Unito non ha commesso l’errore di adottare l’euro, come ripetutamente evidenziato dal premio Nobel Paul Krugman. Mantenendo la propria autonomia nella politica economica, ha potuto fronteggiare rapidamente ed efficacemente la crisi del 2009.

È importante, poi, osservare che, tra gli stati membri, il Regno Unito è quello commercialmente meno integrato con la Ue. Gli scambi con i paesi membri rappresentano il 43 per cento delle sue esportazioni, a fronte del 55 dell’Italia, del 58 per cento della Germania e del 70 per cento del Belgio. Dal 2002, la quota è progressivamente diminuita. È, dunque, probabile che la decisione di uscire dall’Unione avrà conseguenze macroeconomiche modeste sul medio-lungo periodo sia per il Regno Unito, sia per la Ue. Meno probabile, invece, la catastrofe preconizzata dai sostenitori del remain. Altra cosa, invece, l’effetto sui mercati, la cui reazione sembra riflettere, però, più l’incertezza causata dall’esito referendario che i suoi prevedibili effetti economici. Non a caso, a subire le maggiori perdite sono state, nell’immediato, le borse dei paesi mediterranei: Italia e Spagna in particolare.

Più che economico, il reale impatto del referendum britannico è politico. Il timore è che anche in altri paesi i partiti euroscettici chiedano (come già stanno facendo) dei referendum sulla partecipazione alla Ue, sull’euro o su altri importanti temi.

Negli ultimi anni, si è diffuso un clima di disaffezione, di malcontento, se non di aperta opposizione nei confronti della Ue. Sentimenti alimentati da forze politiche populiste o nazionaliste, alla cui base vi sono, però, delle ragioni che non possono essere ignorate. Per una quota crescente di cittadini, l’Europa si identifica con una burocrazia potente, distante e oppressiva. Le politiche di austerità sostenute dalla Commissione europea, dalla Bce e dalla Germania, hanno imposto incomprensibili sacrifici a milioni di persone già duramente provate dalla crisi economica. Non sempre a torto, si ritiene che molte decisioni assunte a Bruxelles siano condizionate da lobby rappresentative di grandi interessi economici, a discapito dei cittadini. Infine, il dramma dell’immigrazione, con il prevalere delle posizioni e divisioni nazionali, ha rappresentato un ulteriore, evidente fallimento della politica europea. Ma c’è una ragione ancora più profonda del malcontento. Riguarda la crisi di rappresentanza democratica di cui soffre l’Unione.

Nella Ue, la politica economica è fortemente vincolata dal rispetto di regole economiche e finanziare, la cui razionalità appare oggi dubbia, ma il cui rispetto impone sacrifici ai cittadini. Negli anni di recessione, istituzioni economiche non elettive, come la Commissione e la Bce, hanno dettato a governi democraticamente eletti draconiani piani di riforme – si ricordi, al proposito, anche la lettera inviata dalla Bce al governo italiano nell’agosto 2011, con un elenco di misure da adottare. Quasi in sordina, si sono modificate le costituzioni nazionali, come in Italia, introducendo articoli con stringenti vincoli di finanza pubblica. Le richieste di maggiore democrazia nelle scelte economiche sono state ignorate, se non apertamente contrastate, come nel caso della Grecia qualche anno fa.

In Europa, il governo delle regole ha progressivamente sostituito il governo delle scelte, comprimendo gli spazi democratici. Come ha scritto l’economista Jean Paul Fitoussi, in un profetico volumetto uscito qualche anno fa (Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa), il governo europeo delle regole agisce come una sorta di “dittatore benevolo” al riparo dalle pressioni, dalle tensioni, dai rischi che la democrazia comporta. Per questo la principale conseguenza della Brexit non è economica, ma politica. Impone all’Unione di cambiare. L’alternativa è che il malcontento si diffonda e che i cittadini europei chiedano, anche in altri paesi, di far sentire la propria voce. Quali saranno le conseguenze per il futuro dell’integrazione europea è facile immaginarlo.

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