Il cambiamento delle politiche dell’Unione Europea è il tema centrale, soprattutto in Italia, delle elezioni per il Parlamento Europeo. Il cambiamento principalmente auspicato sembra riguardare le “politiche di austerità fiscale”, e in particolare, i vincoli per il disavanzo delle Amministrazioni pubbliche (in generale del 3%, tendenzialmente verso lo 0% per i paesi con un elevato debito pubblico, come l’Italia). In realtà, dal punto di vista dell’Italia, altri sembrerebbero essere i cambiamenti da perseguire.
Cambiare le politiche di austerità fiscale? No.
I vincoli europei al disavanzo pubblico italiano sembrano essere in realtà sostanzialmente ininfluenti, perché i veri vincoli da rispettare vengono non dalle decisioni delle Istituzioni europee ma dai mercati finanziari, vale a dire da una moltitudine di operatori, italiani ed esteri – fondi di investimento, banche, ma anche famiglie – a cui giorno per giorno si chiede di finanziare la parte di spesa pubblica non coperta da entrate fiscali e contributive. Se anche fossero del tutto eliminati i vincoli posti dall’Unione Europea, nella misura in cui elevati disavanzi pubblici fanno aumentare il timore di un default dell’Italia, gli acquirenti dei titoli del debito pubblico italiano, per premunirsi dal maggior rischio, richiederebbero tassi d’interesse più elevati, con effetti perversi sia sul disavanzo pubblico, sia sui tassi d’interesse che dovrebbero pagare famiglie e imprese italiane per finanziare i loro investimenti. Nella situazione attuale, si può stimare che ad ogni punto in meno di avanzo primario in percentuale del PIL rispetto all’1,6% del 2018 corrisponde, a regime, un aumento di circa due punti del disavanzo complessivo in percentuale del PIL. Un aumento di un punto dell’avanzo primario in percentuale del PIL potrebbe, invece, consentire di ridurre quasi a zero lo spread rispetto alla Germania, far diminuire di circa due punti il tasso d’interesse sui buoni del tesoro decennali e portare quasi in pareggio il bilancio complessivo delle Amministrazioni pubbliche italiane[1]. Paradossalmente, un allentamento dei vincoli europei determinerebbe già di per sé una reazione negativa dei mercati finanziari tale da far aumentare gli interessi sui titoli di stato italiani, anche a parità di saldo primario. Per questo motivo, un allentamento dei vincoli europei sui disavanzi delle amministrazioni pubbliche sarebbero per l’Italia del tutto ininfluenti, e potrebbero forse avere effetti addirittura negativi.
Più in generale, anche le politiche di austerità di altri paesi dell’Unione europea, e in particolare della Germania, sembrano avere effetti complessivamente positivi per ’Italia. I livelli attualmente storicamente molto bassi dei tassi d’interesse non dipendono dalle banche centrali, ma da un eccesso di risparmi globali rispetto alla domanda di beni per investimenti. Da alcuni anni la condizione di equilibrio fra offerta di risparmio e domanda di beni per investimenti ha comportato nell’area euro un tasso d’interesse nominale “naturale” o “di equilibrio” a breve termine significativamente negativo. E’ per questo motivo che la Banca Centrale Europea, non soltanto ha mantenuto pari a zero, o addirittura leggermente negativi, i tassi d’interesse nominali a breve termine, ma ha dovuto anche adottare delle politiche monetarie espansive “non convenzionali” che hanno comportato, fra l’altro, anche l’acquisto di quasi un quarto dei titoli del debito pubblico italiano. Quando i tassi d’interesse nominali sui titoli di stato a lungo termine della Germania torneranno verso i livelli “normali” di lungo periodo di circa il 5%, con lo spread attuale, il tasso d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano a lungo termine potrebbe aumentare da circa il 3% di questi giorni verso l’8%, rendendo ben difficilmente sostenibile il debito pubblico italiano! I più alti tassi d’interesse graverebbero poi, naturalmente, non soltanto sulle Amministrazioni pubbliche, ma anche sulle imprese e sulle famiglie. Appare, quindi, essere nell’interesse sia del Sud che del Nord dell’Italia che le politiche di austerità, sia in Italia che in altri paesi, contribuiscano a mantenere bassi il più possibile i tassi d’interesse, sia per le Amministrazioni pubbliche, sia per imprese e famiglie.
Eliminare i vincoli sulle politiche per il Mezzogiorno? Si.
I vincoli europei che per il bene dell’Italia sarebbe molto utile eliminare riguardano non l’austerità fiscale, ma le irragionevoli restrizioni alle politiche di coesione territoriale imposte dalla Commissione europea – e, in particolare, dalla Direzione per la concorrenza – sulla base di una interpretazione fortemente, e irragionevolmente, restrittiva dei trattati europei.
La principale anomalia dell’economa italiana è rappresentata dal bassissimo tasso di occupazione regolare nelle regioni del Mezzogiorno, un’area in cui vivono quasi 21 milioni di persone, pari a circa un terzo della popolazione italiana complessiva. Secondo le stime dell’Istat, per ogni 100 abitanti in età da lavoro (convenzionalmente da 15 a 64 anni), ne sono impiegati in media nelle regioni del Mezzogiorno soltanto 45, di cui circa un quinto in modo non regolare, a fronte di 68 per la media dei paesi OCSE (80 in Svizzera, 77 in Svezia, 75 in Germania, Regno Unito e Giappone, 70 negli USA, 65 in Francia) (OECD, 2019), con un tasso di irregolarità pari a circa la metà di quella del Mezzogiorno. E’ soprattutto il bassissimo valore del Mezzogiorno, inferiore di quasi 10 punti rispetto addirittura a quello della Grecia, che tiene basso al 59% il tasso medio di occupazione in Italia, nonostante un tasso di occupazione medio nel Nord dell’Italia uguale alla media dei paesi OCSE.
Il bassissimo tasso di occupazione nel Mezzogiorno, oltre a comportare gli effetti negativi (economici, politici e sociali) per i giovani del Mezzogiorno evidenziati magistralmente da Amartya Sen[2], comporta l’esigenza di elevati trasferimenti dalle regioni del Nord (“residui fiscali”) per garantire un livello adeguato di servizi pubblici nelle regioni del Mezzogiorno. Soprattutto per ridurre significativamente questi trasferimenti le regioni del Nord, anche sulla base dei risultati dei referendum del 22 ottobre 2017 in Lombardia e Veneto, chiedono con insistenza una maggiore autonomia fiscale. Nella situazione attuale una riduzione dei trasferimenti dal Nord avrebbe per il Mezzogiorno effetti negativi per quel che riguarda sia l’occupazione, sia la qualità dei servizi pubblici. Una crescita dell’occupazione e del reddito nel Mezzogiorno potrebbe comportare un’automatica riduzione di questi trasferimenti.
Dal punto di vista dell’analisi economica, applicando in particolare l’analisi di James Meade (1951), premio Nobel per l’economia nel 1977, riportata in tutti i testi di economia internazionale nella sintesi diagrammatica di Swan, la via maestra per aumentare l’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno e diminuire i trasferimenti dalla regioni del Nord è rappresentata da un aumento di competitività delle produzioni meridionali. La strada migliore per aumentare la competitività sarebbe attraverso un aumento di produttività del Mezzogiorno, in particolare nelle produzioni a mercato internazionale. Purtroppo tutti i tentativi fino ad ora fatti di aumentare la produttività, in particolare attraverso le politiche strutturali dell’Unione europea, sembrano aver avuto esiti del tutto negativi (Perotti e Teoldi, 2014). Appare, quindi, necessario nel Mezzogiorno, così come accade in tanti paesi e regioni del mondo, percorrere, ameno in parte, la strada di aumentare la produttività mediante una riduzione del costo del lavoro per le imprese del Mezzogiorno esposte alla concorrenza internazionale. Nel caso di paesi politicamente indipendenti, l’equilibrio competitivo internazionale è generalmente perseguito mediante livelli salariali adeguati alla produttività. Nel caso di regioni che sono unite politicamente con regioni caratterizzate da una maggiore produttività, se c’è una certa disponibilità a trasferimenti interregionali, questi possono essere in parte utilizzati per stimolare la competitività delle regioni meno produttive con sgravi fiscali che riducano il costo del lavoro per le imprese a parità di salari percepiti dai lavoratori[3].
Sgravi fiscali e contributivi per i lavoratori impiegati nel Mezzogiorno in produzioni a mercato internazionale erano stati introdotti successivamente alla decisione di abolire gradualmente, a partire dal 1968, le differenziazioni territoriali di salari e stipendi. Per diversi anni questi sgravi furono “tollerati“ dalla Commissione europea, ma mai esplicitamene approvati. Essi furono definitivamente aboliti con l’accordo Pagliarini-Van Miert del 1994 (Governo Berlusconi I).
Nel 1998 il Governo D’Alema propose alla Commissione europea la reintroduzione degli sgravi per i lavoratori del Mezzogiorno, ma i commissari Karen Van Miert e Mario Monti opposero un netto rifiuto. Le motivazioni del rifiuto furono esposte in una intervista di Van Miert a Repubblica dell’11 luglio 1998: “nuovi sconti contributivi per le regioni meridionali, o altre agevolazioni tributarie di quel tipo, sono contro i principi del mercato unico europeo e della libera concorrenza. Inoltre questi strumenti rischiano di servire a mantenere imprese decotte e quindi a perpetuare condizioni da economia assistita.” Il … Sud ha possibilità enormi ma ad una condizione: dovete rispettare le regole del gioco europeo. Mi creda, il caso del Portogallo dimostra che quelle regole sono perfettamente compatibili con il decollo di una regione povera”.
In realtà i dati Eurostat (2019) evidenziano come le imprese portoghesi abbiano la possibilità di continuare a operare, nonostante la loro relativa inefficienza, grazie a un costo orario del lavoro (14,2 euro) pari alla metà di quello sostenuto dalle imprese italiane (28,2 euro). Costi per ora di lavoro ancora più bassi hanno le imprese della repubblica Ceca (12,6 euro), quelle slovacche (11,5 euro), quelle polacche (10,1 euro), quelle ungheresi (9,2 euro), quelle rumene (6,9 euro). Non si capisce perché le regole della concorrenza debbano essere applicate al Mezzogiorno d’Italia e non a tutti questi paesi indipendenti.
Secondo l’articolo 107, 3° comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, “ Possono considerarsi compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, …..”. Ciò significa che l’autorizzazione di sgravi fiscali e contributivi per le attività produttive di beni a mercato internazionale localizzate nel Mezzogiorno non richiede alcuna modifica dei trattati UE, ma soltanto un mutamento nell’interpretazione particolarmente restrittiva che la Commissione europea ha adottato fino ad ora in tema di aiuti di stato.
In considerazione del clamoroso fallimento delle politiche strutturali (Perotti e Teoldi, 2014), e della impraticabilità politica di sufficienti differenziazioni salariali, soprattutto nel pubblico impiego, sarebbe probabilmente opportuno aprire un confronto serrato con la Commissione europea sulle strategie più efficaci per l‘aumento dell’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno e la riduzione dei trasferimenti dalle regioni del Nord.
References
Alesina A, Danninger S., Rostagno M., (2001), Redistribution Through Public Employment: The Case of Italy, IMF Staff Papers, Vol. 48, No. 3.
Boeri T., Ichino A., Moretti E. Posch J., 2019, Wage Equalization and Regional Disallocation Evidence from Italian anf German provinces, Centre for Economic Policy Research.
Chiorazzo V., Spaventa L. (2000), Astuzia o virtù? Come accadde che l’Italia fu ammessa all’Unione monetaria, Donzelli, 2000.
Eurostat (2019), Hourly labour costs in 2018, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics explained/index.php/Hourly_labour_costs#, April.
Meade J. E., 1951, The balance of payments, Oxford University press.
OECD (2019), Employment Outlook, Paris.
Perotti R., Teoldi F., 2014, Il disastro dei fondi strutturali europei, Lavoce.info, luglio. http://www.lavoce.info/wp-content/uploads/2014/07/fondi-strutturali-europei.pdf
Sen A., 1997, The Penalties of Unemployment, Banca d’Italia, Temi di discussione, n. 307.
[1] Chiorazzo e Spaventa (2000) hanno messo in evidenza come un meccanismo virtuoso di questa natura consentì all’Italia di ridurre l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche dal 10,3% del PIL nel 1993 allo 0,8% nel 2000.
[2] “The penalties of unemployment not only include issues of income loss, but also far-reaching effects on self-confidence, work motivation, basic competence, social integration and the appreciation and use of individual freedom.”(Sen, 1997, p. 26)
[3] Alesina, Danninger e Rostagno (2001) hanno evidenziato come in passato i trasferimenti verso il Mezzogiorno, sostenendo principalmente il pubblico impiego, abbiano disincentivato le attività di produzione di beni a mercato internazionale. Boeri, Ichino, Moretti e Posch (2019), così come diversi altri economisti e istituzioni internazionali, hanno sostenuto l’opportunità di sostenere la competitività delle produzioni del Mezzogiorno mediante una regionalizzazione dei contratti di lavoro. Questa strada si è tuttavia rivelata fino ad ora politicamente non praticabile, soprattutto per il fatto che la regionalizzazione dovrebbe essere applicata in primo luogo ai contratti dei dipendenti pubblici.