La recente pubblicazione dell’aggiornamento congiunturale dell’Economia della Calabria curato dalla Banca d’Italia (Filiale di Catanzaro) ha alimentato un vivace dibattito sulle dinamiche in atto nel sistema economico regionale. La discussione è stata trainata sia dall’autorevolezza dell’istituzione che ha pubblicato il Rapporto, sia dal fatto che per alcune variabili macroeconomiche si è osservato un’attenuazione delle variazioni negative osservate nei trimestri precedenti. Sebbene il Direttore della Filiale della Banca d’Italia abbia mostrato estrema cautela nelle fasi di divulgazione del Rapporto, alcuni dati sono stati interpretati, in qualche salotto, sia come un segnale del fatto che è in atto la ripresa, sia come l’esito delle politiche regionali attuate nel 2014 e nel 2015. Limitando l’analisi al mercato del lavoro e partendo dalla constatazione che i dati trimestrali del Rapporto della Banca d’Italia indicano che “le condizioni nel mercato del lavoro sono rimaste tese” e che “l’occupazione è tornata a scendere” (p. 5) è utile fornire sia una diversa chiave di lettura dei dati sia una riflessione sulle implicazioni di crescita di lungo periodo.
L’analisi
Per descrivere in modo adeguato le caratteristiche del mercato del lavoro non è sufficiente analizzare il tasso di disoccupazione – espresso come la quota di persone in cerca di lavoro rispetto alle forze di lavoro – ma è necessario considerare (almeno) altri due indicatori: il tasso di occupazione, definito come la quota di occupati sulla popolazione residente in età lavorativa (15-64); e il tasso di attività, che è il rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione residente in età lavorativa. Per completezza di analisi è importante guardare anche alle singole variabili che compongono questi tassi.
In estrema sintesi questi indicatori segnalano quanto segue. Dal 1995 al 2014 si osserva un andamento irregolare della disoccupazione: aumenta nella seconda metà degli anni ’90 e diminuisce fino al 2007. La disoccupazione aumenta con una marcata regolarità durante gli anni della crisi (Fig. 1A). Dai dati ISTAT, ripresi nel Rapporto della Banca d’Italia, si apprende che nel II trimestre 2015 la disoccupazione pesa per il 25.2% delle forze di lavoro: su 100 persone incluse nelle forze di lavoro, 25 sono prive di occupazione. Ulteriori elementi di valutazione sono forniti dal tasso di occupazione. La dinamica di questa variabile è abbastanza speculare a quella del tasso di disoccupazione (timido aumento fino al 2007 e riduzione negli anni successivi, Fig. 1A). La nota dolente proviene dai valori che assume questa variabile: tra le persone in età lavorativa, il mercato del lavoro calabrese ne assorbe, in media, solo 4 su 10. Se consideriamo gli anni successivi al 2006, questo indicatore non è tanto legato alla dinamica del suo denominatore (le persone in età lavorativa, Fig. 1E), bensì dall’andamento dell’occupazione: nel 2014 gli occupati erano 514 mila, ossia 82 mila in meno rispetto al 2006 (Fig. 1D). Un mercato di lavoro in cui si distrugge occupazione. Se si aggiunge che la crisi ha colpito relativamente di meno l’occupazione pubblica, questi dati segnalano la strutturale debolezza del settore privato di “trattenere” occupazione. Infine, se focalizziamo l’attenzione al tasso di attività si ricava che dal 1995 al 2014 le persone attive sul mercato del lavoro – ossia gli occupati più chi cerca lavoro – rappresentano, in media, solo il 50% delle persone in età lavorativa (Fig. 1A). Un dato drammatico che merita un approfondimento: il tasso di attività è abbastanza stabile nel corso del tempo, a meno di deviazioni di breve periodo rispetto alla media “strutturale” del 50% (Fig. 1A). Tuttavia, questa relativa stabilità è l’esito di diverse dinamiche delle variabili che lo compongono: fino al 2002 l’aumento del tasso di attività dipende dall’incremento delle forze di lavoro e dalla parallela riduzione della popolazione. Dal 2003 in poi le forze di lavoro diminuiscono più di quando non faccia la popolazione e, al netto, si ottiene un tasso di attività decrescente (Fig. 1C e 1E). Negli ultimi anni il tasso di attività cresce di qualche punto percentuale (meno del 50% prima del 2011, più del 50% dopo il 2011) e ciò dipende non tanto dalle variazioni della popolazione, bensì dall’incremento delle forze di lavoro. Nel II trimestre 2015 il tasso di attività di attesta al 50,9%.
Una prima conclusione
Da questi aridi dati è importante trarre alcuni conclusioni. Dal 2010 in poi, ad una riduzione dell’occupazione si contrappone un incremento delle forze di lavoro. Da un lato ciò appare un paradosso perché l’uscita dal mercato del lavoro determina una trasformazione dello status occupazionale (da occupato a disoccupato) lasciando inalterato il livello delle forze di lavoro. Dall’altro lato l’incremento delle persone in cerca di occupazione è maggiore di quanti lasciano un lavoro e la differenza è rappresentata da chi entra nei circuiti lavorativi, trasformandosi da inattivo a disoccupato, ma attivo. E’ una cosa buona, perché evidenzia con un minimo di regolarità (gli ultimi 3-4 anni) che chi è ai margini delle relazioni lavorative intende ritornare ad avere un ruolo nel mercato del lavoro. Ci prova. Un timido segnale di vivacità che deve essere colto ed interpretato in modo corretto, accompagnandolo con politiche attive sul mercato del lavoro, per consolidarne la tendenza e frenare la disaffezione e lo scoraggiamento di chi è privo di lavoro. Un versante ruvido da affrontare perché, qualsiasi sia la politica attiva, il recupero di “attivismo” dei lavoratori si scontra con un mercato del lavoro che distrugge occupazione, piuttosto che crearla.
Discussione e implicazioni di politica economica
Che cosa abbiamo appreso da questa riflessione? Certamente che l’attenzione della nuova programmazione regionale ai problemi del mercato del lavoro non avrà esiti entusiasmanti così come si narra, se non avremo incrementi duraturi e auto-sostenuti della domanda di lavoro da parte delle imprese. Una strada da percorrere, molto trascurata finora sia dai privati sia dalle attività di policy making, è di avviare una trasformazione in chiave tecnologica dei processi di produzione. Questa trasformazione consentirebbe al sistema regionale di competere su mercati a domanda anelastica rispetto al prezzo, ma sensibili alla qualità e alla differenziazione dei prodotti. Tra le soluzioni che oggi appaiano essere quelle razionalmente più sensate, intercettare il dinamismo di questi mercati mondiali è certamente la strategia più seria per affrontare e risolvere il problema della crescita con occupazione. In assenza di ciò, la Calabria sarà inesorabilmente destinata a posizionarsi su un equilibrio di permanente sottosviluppo perché soffrirà sempre di vincoli di domanda di lavoro. La portata dei potenziali impatti di queste trasformazioni è ignota ai più e, quindi, diventa vitale spiegare con estremo rigore che guardare alle emergenze, discutere e affrontare questioni di nicchia è una scelta (privata e pubblica) miope e senza senso.
D’altra parte qualche preoccupante avvisaglia della tendenza del processo di povertà verso cui la regione convergerà nell’immediato futuro è anche nei dati che abbiamo finora presentato. Un segnale proviene dall’andamento della popolazione in età lavorativa: dal 1995 al 2014 si è avuta una regolare riduzione del bacino di offerta di potenziali occupati. Questo andamento dipende essenzialmente da tre motivi: il primo fa riferimento alla bassa natalità, il secondo ai pensionamenti degli over 64-enni e il terzo all’emigrazione. Per motivi di spazio, guardiamo solo ai flussi migratori. Essi pongono questioni di sostenibilità dello sviluppo nella misura in cui l’emigrazione è di massa e interessa le forze più “attive” e magari più scolarizzate del mercato del lavoro. I dati ISTAT indicano che dal 1995 al 2013 la differenza tra cancellazioni e nuove iscrizioni è pari a 154354 persone: in media abbiamo perso più di 8000 residenti all’anno (Fig. 1E). Se fosse un fenomeno concentrato ce ne accorgeremmo perché vedremmo scomparire un paese ogni 12 mesi. Non lo percepiamo nella sua gravità perché è spazialmente disperso su tutto il territorio regionale. Tuttavia chi osserva, per esempio, le dinamiche delle aree interne sa che la chiusura di molte abitazioni è l’esito di questo fenomeno di generalizzato impoverimento della regione.
Anche in questo caso la soluzione non è banale. Per arginare la fuga di residenti è certamente utile offrire più servizi alle persone, attenuare i problemi di mobilità, massimizzare la facilità d’uso dell’economia della rete, marginalizzare i problemi di esclusione sociale. Tuttavia, il rischio che tutto ciò si trasformi nell’ennesimo fallimento delle politiche attivate con i fondi comunitari è elevatissimo, se a queste non si affianca la definizione di potenziali equilibri che segnalino agli individui la presenza, nel medio periodo, di serie prospettive occupazionali in settori a domanda dinamica e ad elevato valore aggiunto.
Definire e perseguire un’ipotesi di sviluppo basata su questi settori consentirebbe di guardare al futuro con maggiore fiducia perché renderebbe potenzialmente realizzabile l’idea di avviare un processo di crescita con occupazione duratura. Si passerebbe dall’attuale scenario in cui molte energie fresche e vivaci scelgono altre residenze, e chi rimane vivacchia, ad uno scenario in cui i luoghi offrono effettive opportunità di lavoro. Gli sforzi di avere un buon programma di politiche locali per i prossimi anni non vanno purtroppo in questa direzione: nel POR 2014-2020 non si indica con sobrietà di linguaggio e senza perdersi nei meandri del tecno-burocratese qual è l’idea di Calabria che vogliamo costruire con il contributo delle risorse comunitarie. Per le riflessioni riportate in questa nota, argomentare, spiegare e sostenere che avremo una Calabria più intelligente, più sostenibile e più inclusiva non solo non è sufficiente, ma è anche una pia illusione mediatica.
Figura 1: Indicatori del mercato del lavoro in Calabria dal 1995 al 2014