Dalle comunità universitarie servono segni di ripartenza[1] di Domenico Talia (*)
Le università italiane in questi tre mesi di epidemia non si sono mai fermate. La didattica e la ricerca sono proseguite anche durante le settimane più difficili grazie all’uso della rete e delle sue piattaforme software. Eppure in questo complesso periodo, come tanti altri luoghi, i campus universitari sono diventati territori deserti e silenziosi. E adesso che la fase più difficile sembra essere passata, soltanto qualche laboratorio, qualche biblioteca e poco altro sono tornati a registrare presenze umane. La reazione rapida ed efficace alla chiusura per COVID-19 e l’erogazione dei corsi on-line, cosa molto importante, non deve rendere gli atenei soddisfatti pienamente fino a che la vita della comunità accademica non riprenderà pienamente. Gli atenei sono i luoghi principi del cambiamento, della cooperazione, dell’innovazione, della semina di idee, della capacità critica e della visione. L’università deve offrire risposte alla necessità che la società ha di nuove soluzioni per scenari inediti, deve incarnare il rinnovamento e, quindi, non deve chiudersi, e men che meno deve chiudere le porte ai suoi studenti e ai suoi docenti.
Per queste ragioni, mentre il virus allenta la presa, è necessario chiedersi qual è oggi la funzione dei campus universitari, come questi luoghi del dubbio e del sapere devono tornare a vivere rapidamente. Nonostante le incertezze e le difficoltà, occorre trovare al più presto delle risposte, definire delle oper(azioni) per uscire al meglio da questo anno che certamente non dimenticheremo. Questo vale per le università di tutto il Paese, ma vale ancora di più per università fortemente residenziali, come l’Università della Calabria, che è orgogliosa del suo Campus di Arcavacata, luogo progettato per la condivisione del sapere e per il suo avanzamento, facilitato dalla comunità di studenti e docenti che vivono negli stessi spazi e alimentano così vicendevolmente la loro interazione e le loro competenze.
Le legittime preoccupazioni del Ministro Manfredi, condivise anche dai rettori delle università italiane, compresi quelli calabresi, sono reali, ma non devono spingere ad aumentare l’isolamento e il timore. I campus universitari vanno aperti, rispettando regole e attenzioni, come lo stanno facendo le aziende e il commercio, come i ristoranti e i servizi al pubblico. L’attenzione è necessaria, ma occorre abbandonare la tentazione di credere che l’unica soluzione praticabile è “l’online“. Va riportata la vita nei campus, anche gradualmente, organizzando modalità seminariali, opportunità di lavoro e di incontro magari limitate, ma certamente fruttuose. La vita universitaria deve essere esempio di rinascita e di germinazione di sapere, per andare oltre questo tempo di pandemia.
Nelle università gli studenti costruiscono relazioni che sono cruciali per la loro formazione e necessitano e chiedono rapporti e interazioni con i docenti che sono un diritto per chi sceglie di studiare in un campus. Chi frequenta e risiede nell’università, sa che lì vive esperienze che non si possono vivere in una università telematica, perché l’erogazione della didattica esclusivamente online non potrà mai costruire il senso di una effettiva comunità, non può offrire la dialettica e il confronto che gli umani sanno esprimere con tutti i loro sensi. Gli stimoli, le percezioni e le idee che nascono dagli incontri nelle aule, nei laboratori o anche nei corridoi. Anche le occasioni di incontro e di discussione impreviste e casuali che in un campus accadono di frequente, sono un elemento che contribuisce a determinare la riflessione, la trasmissione del sapere, la costruzione di fili culturali deboli che a volte offrono percorsi culturali e scientifici di estremo frutto.
Se ci relazioniamo soltanto tramite un video e una tastiera rischiamo di finire confinati in una bolla che costruisce un nuovo reale più povero di quello tradizionale, un mondo che isterilisce idee e progetti. Il “nuovo reale” che il digitale ci ha permesso di creare deve prevedere un’intelligente combinazione di strumenti online e di contatti fisici, di comunicazioni digitali unite alla possibilità di guardarsi negli occhi. Se lavoriamo e studiamo soltanto online, i nostri contatti e le loro manifestazioni si riducono a piccoli archi monodimensionali che impoveriscono l’interazione con il mondo e con gli altri.
La crisi ha accelerato la digitalizzazione, e questa ci sta permettendo di porre rimedio a molti problemi causati dalla pandemia, ma l’università è fondata sull’incontro. Non bisogna cadere nella trappola della facilità del digitale per usarlo come surrogato dell’incontro tra docenti e studenti, tra ricercatori, tra studiosi giovani e meno giovani. Il digitale è una grande opportunità, ma non deve isterilire le comunità universitarie riducendole dentro luoghi distopici. Deve soltanto aiutarle a diventare spazi umani migliori dove si pensa il futuro guardandosi negli occhi e condividendo online e fisicamente problemi e soluzioni.
(*) Domenico Talia è Professore Ordinario di Sistemi di elaborazione delle informazioni (ING–INF/05) presso l’Università della Calabria (Arcavacata di Rende, Cosenza)
[1] Questa nota è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud (Edizione del 24 Maggio 2020)