Introduzione
Il reddito di cittadinanza e l’introduzione della quota 100 nel sistema pensionistico, che prevede nella sostanza un abbassamento dell’età pensionistica rispetto ai livelli attuali, sono i due provvedimenti introdotti nella finanziaria in preparazione considerati “irrinunciabili” da di Maio e Salvini. Questi due provvedimenti, come ormai tutti hanno compreso, sono di difficile realizzazione perché sono proposti in un periodo in cui non si crea ricchezza aggiuntiva, gli investimenti produttivi sono irrilevanti, in un contesto in cui la demografia non aiuta, anzi. Ricordiamo che durante gli anni ’60 del secolo scorso il sistema pensionistico era ampiamente sotto controllo ed era anche possibile elargire a piene mani pensioni d’invalidità, baby pensioni e sussidi vari grazie al boom economico, ma anche perché la demografia aiutava.
La platea dei possibili percettori era relativamente ridotta rispetto agli attivi che con i loro contributi, attraverso lo Stato, pagavano ai primi le provvidenze dianzi elencate. Cioè, all’epoca si era creato un dividendo demografico positivo che rimase tale per alcuni decenni. Oggi siamo in una situazione del tutto opposta: la platea dei potenziali percettori di pensioni e quant’altro è molto ampia rispetto al numero delle persone in età attiva e non siamo ancora usciti dalla crisi economica. Il dividendo demografico da positivo è quindi diventato negativo. Già da decenni siamo un Paese con un forte e veloce invecchiamento demografico e al quale si attaglia molto bene il ritornello di una canzone che mi ricorda le manifestazioni carnascialesche della mia infanzia: “Se tutti i vecchi portassero i lampioni, misericordia che illuminazione! Trarallelera, trarallallà, trarallellera, trarallala!”.
La transizione demografica
Ricordiamo che l’Italia ha terminato da tempo il processo di transizione demografica che l’ha traghettata da un regime demografico naturale a uno moderno; da alti tassi di natalità e mortalità (38 nati e 30,8 morti per mille abitanti nel 1862) a bassi livelli di questi due fenomeni (7,6 nati e 10,7 morti per mille abitanti nel 2017). Alla fine di questo lungo processo di trasformazione, le cui determinanti sono molteplici ma che possiamo racchiudere per brevità con il termine “modernizzazione”, ci ritroviamo in un Paese con una bassissima fecondità, 1,32 figli per donna feconda, una sopravvivenza di oltre ottanta anni e con una piramide demografica caratterizzata da un forte invecchiamento.
Una nuova definizione della vecchiaia
In tutto questo periodo di notevoli cambiamenti sociali ed economici le fasi della vita inoltre si sono profondamente modificate: per esempio, ancora oggi le statistiche considerano l’inizio della vecchiaia a sessantacinque anni. Ancora, non si è preso atto che oltre all’aumento della sopravvivenza si è allungata anche la sopravvivenza in buona salute. Oggi, infatti, com’è stato sottolineato nel recente congresso della Società italiana di geriatria e gerontologia, si sarebbe anziani a iniziare da settantacinque anni; un 65enne di oggi avrebbe la forma fisica e cognitiva di un 40-45enne di 30 anni fa e un 75enne quella di un individuo che aveva 55 anni nel 1980. Le mutate condizioni demografiche ed epidemiologiche porterebbero, affermano i geriatri, a una definizione non più statica ma dinamica della vecchiaia, così che dovrebbe essere considerata anziana una persona con un’aspettativa di vita di 10 anni. Tenendo conto di tutto ciò, sulla base della più recente tavola di sopravvivenza del 2017, la vecchiaia inizierebbe addirittura a 79 anni!
Da qui la necessità non di un abbassamento dell’età pensionistica, come previsto nella quota 100, ma addirittura di un suo innalzamento di almeno dieci anni! Tenendo conto di quanto detto, se come esercizio assumessimo la soglia di 75 anni come inizio della vecchiaia, a cui corrispondono 12,74 anni di vita media residua, la struttura demografica dell’Italia conoscerebbe un “ringiovanimento” addirittura di 50 anni: cioè solo fra mezzo secolo si registrerebbero gli indici di struttura di vecchiaia e di dipendenza anziani di oggi, cioè calcolati con l’assunzione che la vecchiaia inizi a 65 anni (rispettivamente 165,3 vecchi per 100 giovanissimi e 34,8 vecchi per 100 persone in età attiva).
Tabella 1. Previsione degli indici di vecchiaia e di dipendenza anziani (valori %)
In definitiva, con questo nuovo paradigma, che è supportato dall’evidenza scientifica, non solo migliorerebbero sensibilmente i conti del welfare ma si liberebbero risorse importanti per fare anche interventi assistenziali come il reddito di cittadinanza. Questa è fantascienza? Non mi sembra. E’ solo prendere atto della mutata realtà.
Riferimenti bibliografici
R. Lee, A. Mason, What is the Demographic Dividend?, Finance and Development, IMF, Sep. 2006, vol. 43, N. 3.
A. Golini, A. Rosina (a cura di), Il secolo degli anziani. Come cambierà l’Italia, Il Mulino, 2011.
V. Filippi, Una popolazione sempre più longeva, ma anche in salute?, Neodemos, 8/9/2014.
Istat, Indicatori di mortalità della popolazione residente, anno 2016, Report, 24/10/2017.
M. E. Levine, E. M. Crimmins, Is 60 the New 50? Examining Changes in Biological Age Over the Past Two Decades, Demography, 55, 2018.
Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente, anno 2017, Report, 28/11/2018.
www.demo.istat.it, Previsione della popolazione, anni 2017-2065.