Alcuni effetti della riforma costituzionale sulla Calabria

L’assetto costituzionale del nostro Paese potrebbe notevolmente cambiare in seguito all’esito del referendum del prossimo 4 dicembre. Oltre alle riflessioni di carattere nazionale, è utile considerare ex-ante l’impatto e alcuni effetti della riforma a livello regionale e locale, concentrandoci più specificatamente sul caso Calabria.

La rappresentanza
Attualmente la Calabria è rappresentata a Palazzo Madama da dieci senatori, che rappresentano il 3,17% su un totale di 315. Nel nuovo Senato, dovrebbe essere rappresentata da tre senatori, due consiglieri regionali e un sindaco (3,15% su un totale di 95 senatori). La ripartizione dei seggi sarebbe, infatti, parametrata su base demografica, con un minimo di due senatori per regione (ad eccezione del Trentino Alto Adige). La modalità di scelta dei consiglieri e dei sindaci sarebbe, invece, demandata a una specifica legge che i due rami del Parlamento dovrebbero emanare dopo il voto. Nell’ultimo comma del nuovo art. 57 è scritto infatti che «Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio». A livello infra-regionale invece, verrebbero definitivamente abrogate le Province, già nella realtà pesantemente svuotate e non più soggette ad elezione diretta del presidente e dei consiglieri. In definitiva, in tema di rappresentanza non si ravvisano cambiamenti specifici per la Calabria rispetto alle altre Regioni. Complessivamente ci sarebbero meno senatori che avrebbero minori poteri legislativi rispetto alla situazione attuale, mentre resterebbe immutata a livello numerico la situazione della Camera dei Deputati. I nuovi senatori sarebbero una sorta di voce del Consiglio Regionale a Palazzo Madama e, pertanto, dovrebbero teoricamente essere maggiormente vicini alle istanze ed alle necessità della Regione.
Non avendo possibilità di preventivare come potrebbe essere la nuova legge disciplinante l’elezione dei senatori – se non per mere ipotesi – il giudizio sul punto resta sospeso.

Il nuovo articolo 117
Naturalmente la parte della riforma più interessante in ottica regionale è data dalla rimodulazione dell’art. 117 della Costituzione, già oggetto della precedente riforma costituzionale del 2001. Attualmente la competenza legislativa esclusiva su alcune materie è attribuita allo Stato, su un’altra serie di materie vi è una cosiddetta competenza concorrente tra Stato e Regioni, mentre queste ultime mantengono una competenza residuale su ciò che non è conferito in esclusiva alla competenza statale. La riforma lascia invariata la competenza residuale in capo alle Regioni, ma elimina la concorrenzialità delle materie, distinguendo tra materie di competenza esclusiva statale e materie di potestà legislativa regionale. A chiusura della suddivisione, vi è la cosiddetta clausola di supremazia statale: «Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Ma vediamo nel dettaglio delle materie cosa cambierebbe in caso di Sì.

La tabella, unita alla clausola di supremazia di cui sopra, evidenzia che il legislatore costituzionale ha preferito riordinare le competenze in un’ottica accentratrice delle stesse, lasciando alle regioni un ruolo maggiormente amministrativo ed operativo, più focalizzato su temi di attinenza territoriale.

Il passo indietro nei confronti delle competenze concorrenti è stato soprattutto determinato dai numerosi conflitti Stato-Regioni sollevatisi a seguito della riforma costituzionale del 2001. Con i dati aggiornati al mese di agosto 2015, lo Stato ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale 930 volte, ottenendo 490 sentenze di illegittimità costituzionale di leggi regionali. Le Regioni hanno, invece, depositato 667 ricorsi, ottenendo 506 pronunce di incostituzionalità di leggi statali. È l’Abruzzo la regione contro cui lo Stato ha fatto più ricorsi (85), mentre all’ultimo posto si trova il Trentino Alto-Adige (6). Con riferimento alla Calabria, si può notare che essa risulta tra le regioni più interessate dal fenomeno. Lo Stato ha, infatti, fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro leggi regionali 55 volte (quarta posizione), risultando vincitore in ben 32 occasioni (circa 61% dei casi). Per i conflitti Regioni-Stato, invece, al primo posto vi è la Toscana (82 ricorsi), mentre in ultima posizione vi è il Molise (5 ricorsi). La Calabria ne ha presentati relativamente pochi (16), ottenendo 8 pronunce di incostituzionalità.

Dai dati si evince una maggiore litigiosità dello Stato che – per evitare il proliferare di tali conflitti – è, quindi, propenso a riappropriarsi di una serie di competenze.
Naturalmente, se tali conflitti dovessero venir meno in caso di vittoria dei “Sì” sarebbe una buona notizia, anche per i contribuenti calabresi. Difatti la Calabria ha speso nel solo 2015 tra incarichi professionali esterni, studi, consulenze, indagini, gettoni di presenza e spese per liti una somma enorme pari a € 13.704.549,10, molto di più rispetto a regioni demograficamente ed economicamente superiori come il Piemonte (€ 9.011.997,70), la Lombardia (€ 8.890.910,37) o il Lazio (€ 4.241.651,09) (fonte soldipubblici.gov.it)  Ma la riduzione dei conflitti auspicata dal legislatore non sarebbe automatica. Rileggendo i dati sui conflitti Stato-Regioni in base alle materie (si veda nota 1), si può osservare che in linea generale si tratta di competenze che passerebbero in mano allo Stato. Ma ci sono delle categorie rimaste ibride. Già le prime due voci che hanno generato più conflitti – Coordinamento della finanza pubblica e sistema tributario (339 ricorsi) e Tutela della salute (193 ricorsi) – lasciano qualche perplessità sulla valutazione del potenziale impatto sui minori costi legati alla minore litigiosità. Su questo aspetto ritorneremo più specificatamente nei due successivi paragrafi. Sono rimaste ibride tra Stato e Regioni anche le categorie dell’istruzione e dei beni culturali e ambientali.
In definitiva, in caso di vittoria dei “Sì”, servirebbe – nei primi anni di implementazione della riforma – un lavoro certosino della Corte Costituzionale, anche per definire i limiti della clausola di supremazia statale, al momento affetta da una certa vaghezza e che rischia di diventare l’argomento più indigesto per le Regioni.

L’impatto sulla sanità
Come noto, la sanità rappresenta la competenza più importante delle Regioni, nonché la voce largamente più pesante della spesa pubblica regionale. Un settore molto delicato per la Calabria, commissariata dal lontano luglio 2010. Occorre pertanto provare a capire i cambiamenti che apporterebbe un esito positivo del referendum. La norma di riferimento è sempre l’articolo 117 della Costituzione. Attualmente la competenza “tutela della salute” è in regime di concorrenza Stato-Regioni: le Regioni hanno la competenza legislativa ordinaria e lo Stato ha il compito di determinare i principi fondamentali. Inoltre, grazie alla competenza esclusiva statale di cui al comma 2 – lettera m) dell’art. 117 – «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» – lo Stato centrale ha potuto definire (con il DPCM 29 novembre 2001) i Livelli Essenziali di Assistenza, ossia «(…) le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale(…)» .  La riforma Boschi prevede, invece, uno sdoppiamento di competenze. La competenza esclusiva statale viene allargata, perché al comma 2-lettera m) di cui sopra verrebbe aggiunta la locuzione «disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare». Nelle competenze regionali verrebbe, invece, aggiunta la voce «programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali».  A prima vista non si ravvisano grossi cambiamenti. Ma con un’analisi più attenta del testo si potrebbe evidenziare che tra la determinazione dei “principi fondamentali” attribuita attualmente allo Stato e le “disposizioni generali e comuni” di cui alla riforma, vi sia un maggiore potere per lo Stato, che potrebbe regolamentare su specifiche prestazioni a livello nazionale. Se a questo aggiungiamo la clausola di supremazia statale già citata, si può convenire che la riforma accrescerebbe i poteri dello Stato, senza però incidere sulla programmazione ed organizzazione delle prestazioni sanitarie (ASL comprese) che resterebbe in capo alle Regioni.

La modifica dell’art. 119 e l’abbandono del federalismo

L’art. 119 della Costituzione risulterebbe leggermente modificato dal punto di vista testuale, ma in maniera significativa. Le differenze sono evidenziare nella tabella che segue. Anche in questo confronto, il ritorno dello Stato sembra abbastanza evidente. Questo potrebbe avere importanti ripercussioni, in quanto la legge delega n. 42/2009, che avrebbe dovuto condurre ad un effettivo federalismo fiscale, è stata emanata proprio in attuazione dell’art. 119.  Ovviamente tale legge richiederebbe un adattamento o un totale ripensamento alla luce delle modifiche della riforma ed è già nota la lentezza nell’emanazione dei decreti attuativi che ha impedito, nei fatti, l’introduzione di un vero modello di federalismo fiscale. In altri due lavori ho affrontato il tema dell’asserita convenienza economica del federalismo [1] [2]. La letteratura economica di riferimento fornisce alcuni interessanti spunti sul tema. Per Hayek (1939) la competizione fra stati (o regioni) può innescare meccanismi virtuosi di efficienza. Della stessa idea Tiebout (1956), convinto che la competizione fiscale tra enti locali sia in grado di avvicinare gli amministratori alle preferenze dei cittadini. Tanzi (2000) evidenzia invece rischi di regulatory capturing legati al federalismo e un minore sfruttamento delle economie di scala, così come Treisman (2000) vi intravede maggiori rischi di corruzione. Molto dibattuto l’argomento sulle correlazioni con la spesa pubblica. Secondo uno studio di Rodden (2003), nei Paesi dove sia lo stato centrale sia gli enti locali hanno competenze fiscali, la spesa pubblica totale è minore. Feld et al (2003) hanno, invece, rinvenuto che una competizione fiscale possa condurre ad un gettito fiscale totale minore (ma ovviamente per molti questo sarebbe un problema). Grossmanm, analizzando tre sistemi federali (USA nel 1989, Australia nel 1992 e Canada nel 1994), sostiene che negli stati federali, la competizione possa però incentivare lo Stato centrale a cercare collusioni e corruzioni con i livelli locali.

Tali spunti teorici, interessanti, ma lontani da risposte definitive, vanno poi immersi nelle peculiarità italiane. Dal 2001 sono, infatti, aumentate le spese delle Regioni e la pressione fiscale ha raggiunto livelli mai visti prima. Chiaramente anche chi è in via di principio favorevole al federalismo fiscale (come chi scrive), finisce per vacillare nel leggere i numeri di un parziale fallimento, dove, invece, di maggiore accountability si assiste meramente ad una moltiplicazione di costi e di burocrazie che producono conflitti tra i livelli e risultati spesso scadenti.

Conclusioni con uno sguardo alla Calabria
Il voto del 4 dicembre riveste un’importanza rilevante per il futuro dell’Italia e, di conseguenza, della Calabria. Non è facile prevedere gli effetti in caso di approvazione popolare della riforma. Si può preventivare una riduzione del potere legislativo delle Regioni ed una riduzione quantitativa della rappresentanza in Parlamento. Difficile capire se la riduzione del potere legislativo possa essere un bene o un male per la Calabria. Dal 2001 le giunte regionali succedutesi nel tempo non hanno generato performance adeguate a un rilancio competitivo del territorio, ma non è di certo agevole individuare un chiaro nesso di causalità tra l’assetto istituzionale generato dalla riforma di inizio millennio e i risultati raggiunti. Sul tema della conflittualità Stato-Regioni, invece, la riforma tenta di mettere ordine nelle competenze, ma il giudizio finale resta sospeso a causa di alcune categorie ibride che potrebbero richiedere l’intervento della Corte Costituzionale. L’unica deduzione, a livello regionale, che sembra essere possibile prima del voto è il passo indietro rispetto ad un assetto federalista dello Stato, argomento che però spesso incontra una vasta pluralità di contrastanti opinioni.
Nonostante la revisione del Titolo V rappresenti solo un tassello di una riforma molto più ampia e complessa, essa genererebbe alcuni effetti anche su base regionale. Misurare ex ante la portata di tali effetti è attualmente difficile, a causa della mancanza di un riferimento normativo che disciplini l’elezione dei nuovi senatori e di alcune incertezze interpretative legate al riparto delle competenze legislative.

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