Evoluzione dell’epidemia del coronavirus, curve empiriche e tasso di letalità. Quali evidenze?

Con un focus sul basso livello di ospedalizzazione e di uso della terapia intensiva in Calabria

In queste settimane le parole “picco” e “curva dei contagi” sono entrate nel linguaggio corrente e, come succede spesso in questi casi, sono state sovente usate impropriamente e in maniera non corretta. Questo ha generato cattive interpretazioni dei dati che hanno in alcuni casi fatto sembrare contraddittorie le considerazioni degli specialisti.  E’ necessario, quindi, anticipare questa nota con poche righe per ribadire alcuni concetti ed evitare , quindi, ulteriori errori interpretativi.

Bisogna in primo luogo distinguere quella che potremo chiamare curva dei contagi dalla curva degli infetti trasmissivi. La curva dei contagi è un’esponenziale nella parte iniziale dell’epidemia, ad un certo punto questa curva si trasforma in una logistica. Qual è la differenza? Nella prima fase la crescita è simile a quella esponenziale e i numeri crescono ad un tasso crescente fino a raggiungere il massimo tasso di crescita nel punto di flesso. Questo è il punto da cui comincia il rallentamento dell’epidemia perché nei periodi successivi la curva continua a crescere, ma a variazioni percentuali giornaliere sempre minori fino ad un livello di saturazione K, a partire dal quale diventa lineare e si trasforma asintoticamente in una retta parallela all’ascissa.

La funzione logistica, quindi, non ha alcun picco.  Il picco, invece, riguarda la curva degli infetti trasmissivi che ha un andamento a campana, la cui collocazione dipende dalla durata della malattia (periodo contagioso) e dal cosiddetto R0. Il picco si verificherà quando il numero degli infetti raggiungerà il massimo per poi iniziare a scendere a seguito delle guarigioni, delle morti e delle misure di contenimento che fanno scendere R0 al di sotto del valore uno. Il picco di questa curva generalmente ha uno sfasamento temporale rispetto al punto in cui inizia il rallentamento descritto dal punto di flesso della curva dei contagi ed è correlato alla durata media della malattia in fase attiva (nel nostro caso 10-15 giorni così come mostra l’esperienza cinese). Le due figure seguenti mostrano rispettivamente la curva dei contagi e la curva dei casi attivi e come si può vedere dal grafico il rallentamento dell’epidemia è avvenuto intorno al 10-12 febbraio e il picco a intorno al 20-22 febbraio

Figura 1. Fonte: https://www.worldometers.info/coronavirus
Figura 2. Fonte: https://www.worldometers.info/coronavirus

Al fine di verificare l’effetto delle misure di contenimento è più importante considerare la curva dei contagi. I dati relativi al picco determinati a partire dalla curva degli attivi avranno più senso quando si tratterà di decidere il periodo migliore per abbandonare il lockdown. Se guardiamo i dati delle curve attuali vediamo che da 4-5 giorni si riscontra un rallentamento dell’epidemia su base nazionale e, quindi, ci potremo aspettare il picco fra 7-10 giorni. Dal picco alla riapertura sicura, se seguiamo il caso cinese, passa almeno un mese. Una previsione ragionevole di allentamento delle misure è, quindi, da posizionarsi non prima della fine di aprile.

Esaminiamo ora il tasso di letalità in Italia[1]. La tabella 1 confronta il valore del numero di tamponi per contagiato e il tasso di letalità regionale. La distribuzione territoriale del numero di tamponi per contagiato non è variata significativamente nell’ultima settimana, ma non sono variate neanche le distribuzioni territoriali della letalità. Si segnala un peggioramento della Lombardia che raggiunge la cifra preoccupante del 15,5%, ma che ha il tasso più basso di tamponi per contagiato dopo la Valle d’Aosta. A questo dato negativo si contrappone il Veneto che conferma uno dei tassi di letalità (4,7%) più bassi a livello italiano (e probabilmente per numero di casi quello più significativo) e il tasso di tamponi per abitante più elevato dopo la Calabria.

L’interpretazione di questi dati ci porta a due ipotesi non alternative. La prima ipotesi è che la maggiore letalità sia causata dal fatto che a causa dei minori controlli emergono solo i casi più gravi e che, quindi, dal computo dei contagiati, che costituisce il denominatore del tasso di mortalità, manchino molte unità. I contagi sarebbero, quindi, di molto superiori ai contagi rilevati. Questa non sarebbe in ogni caso una buona notizia, perché significa che molti asintomatici o pauco-sintomatici non sanno di esserlo e continuano ad infettare. E, probabilmente, una parte di spiegazione del fenomeno questa circostanza la può dare. Ma la seconda interpretazione del dato, che può essere complementare alla precedente, è anche che il basso numero di tamponi produce un ritardo nel tempo medio di individuazione e di eventuale ospedalizzazione del paziente e questo ritardo può anche essere una causa della maggiore mortalità perché impedisce cure tempestive che potrebbero migliorare la prognosi, soprattutto per i pazienti con più co-morbilità. Mentre il primo aspetto è legato a variabili epidemiologiche sulle quali è difficile incidere, il secondo aspetto rappresenterebbe, se fosse confermato, un limite oggettivo del sistema sanitario che ne limita l’efficienza, anche a fronte di uno sforzo eroico ed encomiabile di tutto il sistema ospedaliero che ha gettato il cuore oltre l’ostacolo e ha sostenuto l’impatto di una terribile epidemia di cui si sa ancora ben poco e  i cui numeri sono semplicemente spaventosi, superando con coraggio limiti strutturali e difficoltà. Il monitoraggio dei soggetti pauco-sintomatici e dei soggetti in quarantena è oggi affidato ad un sistema di contatti telefonici, generalmente gestito dai medici di base, che di per sé, non è molto efficiente e che diventa assolutamente insufficiente quando il numero di positivi e di soggetti in quarantena diventa elevato. Se si avesse un sistema di telemonitoraggio medico, anche banalmente limitato alla temperatura, pressione, battito cardiaco e ossigeno del sangue – termometri digitali, misuratori della pressione, sistemi di monitoraggio della glicemia, misuratori dell’ossigeno nel sangue e sistemi di monitoraggio della frequenza cardiaca sono apparecchi non invasivi ormai noti e usati in forma domiciliare -, il medico in remoto potrebbe costruirsi un quadro clinico dell’evoluzione della malattia molto più chiaro, soprattutto se associato ad una cartella sanitaria individuale con la quale correlare i dati sulle comorbilità pregresse con l’evoluzione del quadro clinico. Si potrebbe intervenire, ospedalizzare ed eventualmente intubare i soggetti molto prima che si arrivi alla soglia critica di rischio. Per alleggerire il carico sui medici si potrebbero far gestire i soggetti meno problematici da un’intelligenza artificiale che, opportunamente addestrata, sia in grado di inviare degli alert quando riscontra situazioni di pericolo permettendo l’intervento dei sanitari.

I dati della Corea del Sud e della Germania in figura 3 sono emblematici. Entrambi i paesi hanno usato una strategia aggressiva in termini di tamponi, la Corea ha fatto ad oggi più tamponi dell’Italia, ma con un’epidemia che si è conclusa 20 giorni prima e con un numero di contagi 10 volte superiori, la Germania viaggia ad una media di 70.000 tamponi al giorno. In soli quattro giorni raggiungono il dato italiano realizzato in quaranta giorni. Non si può quindi escludere che il ritardo con cui vengono individuati i positivi può essere una delle cause della prognosi infausta in alcuni casi.

Figura 3

Il coronavirus in Calabria. In Calabria il rallentamento dell’epidemia è avvenuto già da una settimana. Da tre giorni si è avuta una recrudescenza dovuta ad alcuni focolai locali concentrati in tre case di riposo (Melito Porto Salvo, Bocchigliero e Chiaravalle) che hanno causato almeno 100 contagi diretti, pari al 20 % dei contagi totali calabresi. Nel complesso quella calabrese non può, per il momento, essere definita una vera epidemia, perché si tratta in generale di alcuni focolai locali e di casi sporadici che derivano nella quasi totalità, da contatti con soggetti positivi provenienti da fuori regione.

Com’è mostrato in tabella 1,  la Calabria ha il più alto tasso di tamponi per contagiato ed ha anche un livello di ospedalizzazione e di uso della terapia intensiva fra i più bassi in Italia. Anche il tasso di letalità si colloca fra i più bassi Italia (anche se in questo caso i numeri sono ancora limitati per poter fare considerazioni statistiche significative).  La tabella 2 e la figura 4 descrivono questi andamenti

I valori di ospedalizzazione e di uso della terapia intensiva sono in Calabria fra i più bassi in Italia, segno che la strategia dell’estensione dei tamponi è vincente e produce sia meno morti sia meno soggetti ospedalizzati e meno situazioni critiche, oltre a permettere una più incisiva azione per interrompere le catene di contagio, soprattutto quando coinvolgono soggetti sintomatici e pauco-sintomatici. Utilizzando il criterio della gestione dei tamponi fatta in Lombardia, probabilmente una parte considerevole dei soggetti positivi, ma in isolamento domiciliare non sarebbe stata individuata e ciò avrebbe contribuito a diffondere maggiormente il contagio.

Infine, se si fa riferimento alla curva dei contagi in Calabria si può prudenzialmente mostrare un pò di ottimismo, in quanto sta iniziando a piegarsi. Tuttavia, è necessario non allentare l’attenzione, in quanto basta una distrazione per far ripartire le curve dei contagi. Infatti, se l’epidemia in Calabria sembra aver iniziato la fase di rallentamento qualche giorno prima dell’Italia, negli ultimi due tre giorni ha mostrato una leggera impennata rispetto a una settimana fa. La curva traccia la strada da seguire: se continueremo a rispettare le misure di contenimento potremo superare la fase critica e tornare alla normalità.


[1] Il rapporto Deceduti/Contagiati dovrebbe essere più appropriatamente definito tasso di outcome negativo, ma per comodità espositiva si utilizza il tasso di letalità.


 

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