“Flessibilità fiscale” nel fiscal compact per il Mezzogiorno

In questo articolo torniamo su una proposta lanciata per la prima volta qualche mese fa sul blog de Il Fatto Quotidiano, vale a dire la richiesta all’Unione Europea dell’introduzione di un’ulteriore forma di “flessibilità” fiscale nel Patto di Stabilità e Crescita per il Mezzogiorno e per tutte le regioni nelle quali il tasso di disoccupazione è al di sopra del 20% da almeno 5 anni.

Speriamo che il governo in carica se ne faccia portavoce in sede europea come strumento per aiutare la crescita del Mezzogiorno e del resto del paese. Sì, poiché crediamo fermamente che anziché pensare a misure assistenzialistiche che vanno ben oltre il livello di un intervento anti-povertà, per il quale era sufficiente potenziare il REI (Reddito di Inclusione) sia necessario rilanciare investimenti pubblici e crescita del Mezzogiorno.

Speriamo che anche il nuovo segretario del PD che verrà fuori dalle primarie del prossimo febbraio 2019 si faccia portavoce di questa richiesta nel proprio programma di governo. Duole notare che nessuno dei candidati attuali alla segreteria del PD, ad eccezione di Francesco Boccia, abbia previsto alcunché per il Mezzogiorno. È auspicabile che il PD dica parole chiare e abbia proposte concrete di modifica del modo in cui è organizzata l’UE. L’UE non va accettata acriticamente, ma riformata in profondità. La proposta formulata qui potrebbe essere una parte importante di una riforma dell’UE.

La “recessione da austerità” causata dal governo di Mario Monti per contrastare il rischio di default causato dalle politiche di bilancio sconsiderate del governo di Silvio Berlusconi dal 2008 al 2011 è stata un argomento importante per convincere le autorità UE a concedere “flessibilità” nell’uso della leva fiscale ai paesi che sono in recessione. La “flessibilità fiscale” avrebbe dovuto ridurre il grado di “ottusità del Trattato di Maastricht”, notato da molti economisti, secondo cui bisogna ridurre il deficit quando c’è crisi economica e tenerlo alto quando c’è invece una fase di crescite. La flessibilità fiscale nel rinnovato Patto di Stabilità e Crescita è stata prevista in quattro casi:

  1. a) per una recessione;
  2. b) per incentivare gli investimenti, soprattutto per il Piano Junker;
  3. c) per accompagnare riforme strutturali;
  4. d) per far fronte a crisi sistemiche dell’eurozona.

Senza andare troppo nel dettaglio, la flessibilità consiste nel non computare nel calcolo del deficit la spesa per investimenti se ricorre una delle precedenti condizioni.

Nulla di specifico è stato però previsto a favore del Mezzogiorno e delle altre aree dell’intervento strutturale, anche se le aree valutarie tendono per loro natura ad approfondire i divari territoriali. È notorio, infatti, che le aree valutarie tendono ad aumentare il gap di competitività fra aree a maggiore e aree a minore crescita della produttività senza che vi siano altri strumenti di compensazione come il tasso di cambio (che è fisso), la spesa pubblica (che è controllata), la politica monetaria (decisa non più dalle banche centrali dei singoli governi, ma dalla banca centrale europea) e i salari (che sono già a livelli infimi). Credo che sarebbe del tutto accettabile, se non auspicabile chiedere alle autorità europee di introdurre un quinto caso di flessibilità a favore delle regioni ad alta disoccupazione e in ritardo di sviluppo, per restaurare una delle leve più importanti per stimolare la crescita, vale a dire la leva fiscale, non per qualunque tipo di spesa, ma per gli investimenti pubblici.

È incredibile che nessuno abbia pensato a questa opportunità che è in realtà la più logica per andare incontro alle regioni in ritardo di sviluppo. La proposta è molto semplice: si consenta agli stati membri di spendere un 1-2% in più di PIL all’anno per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali nelle aree a forte ritardo di sviluppo. Mi viene di aggiungere: delle grandi opere infrastrutturali e nulla altro. Questo provvedimento dovrebbe essere mantenuto almeno fino a quando le aree a ritardo di sviluppo non hanno raggiunto alcuni target prestabiliti. Si possono usare tanti indicatori per misurare il ritardo e la sua riduzione. Quando una regione ha raggiunto determinati obiettivi concordati con l’Unione Europea questa forma di flessibilità si potrà fermare.

In realtà, la strana austerità che l’Unione Europea ha sperimentato a causa del Patto di Stabilità e Crescita non è riuscita a contrarre davvero il deficit e men che meno il debito. Entrambi hanno continuato ad essere positivi e, nel caso del debito, crescenti, anche perché le manovre di bilancio sono state maldestre, realizzate senza guardare all’effetto complessivo, senza davvero ridurre gli sprechi e con tagli essenzialmente di natura lineare che hanno tagliato dove c’era bisogno di spesa pubblica e hanno invece continuato a sprecare denaro pubblico in molti casi. Spesso il settore pubblico ha esternalizzato servizi che forniva a basso costo ai privati alimentando rendite parassitarie con la spesa pubblica.

La conseguenza però è stata ugualmente non-espansiva, in barba a quanti ritengono che la spesa pubblica, qualunque essa sia, in qualunque rivolo vada a finire, fa sempre crescere il PIL. Purtroppo, non è così: c’è spesa pubblica e spesa pubblica! Bisogna uscire da questo loop in cui continuano a girare moltissimi economisti italiani per cui la spesa pubblica crea sempre crescita. Non è così ed è importante che ci si renda conto di ciò al più presto!

L’austerità italiana non ha funzionato esattamente poiché ha mantenuto la spesa pubblica complessiva costante, con deficit costantemente positivo e debito pubblico crescente, però con una forte redistribuzione in senso recessivo, a favore degli sprechi, dal lavoro ai redditi a minore propensione al consumo e dagli investimenti ai consumi, senza aumentare la capacità produttiva. Ci sono diversi casi che lo dimostrano, come la attuale manovra finanziaria del governo gialloverde.

Il primo capitolo di spesa a risentire dell’austerità europea sono stati proprio i fondi cosiddetti FAS (Fondi per le aree in ritardo di sviluppo). Il 2001 è l’anno in cui i FAS sono dirottati dal governo di Silvio Berlusconi dagli investimenti in conto capitale per il Mezzogiorno a favore dell’ordinaria amministrazione nel Centro-Nord. Questa tendenza è proseguita, però, anche con il breve governo di Romano Prodi, al punto che i FAS sono stati cancellati del tutto.

Al contempo, in mancanza di un chiaro ancoraggio a favore del Mezzogiorno, anche la spesa ordinaria in conto capitale era stata dirottata a favore del Centro-Nord. Ci sono stati anni in cui il Mezzogiorno ha ricevuto una quota molto inferiore al 34% che corrisponde alla percentuale della popolazione meridionale sul totale. Nel 2012, il Sud ha ricevuto solo il 19.1%. Non è un caso, allora, se il divario infrastrutturale fra le due macro-aree del paese si sia negli ultimi due decenni ulteriormente allargato e che estese aree meridionali restino ancora quasi isolate dal resto del paese, ciò che ne rallenta anche le capacità di crescita.

Solo il governo di Paolo Gentiloni, per l’impulso del Ministro per il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, jha riaffermato l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di destinare tendenzialmente il 34% della spesa ordinaria in conto capitale al Mezzogiorno.

Ma questo non può ancora bastare, poiché la solidarietà fra regioni più e meno sviluppate affermata dalla nostra Costituzione prevede una qualche forma di redistribuzione dal Nord al Sud. Certo non per la spesa assistenziale, ma per gli investimenti pubblici ed infrastrutturali. Si dovrebbe consentire, perciò, al più presto, la ricostituzione dei Fondi FAS unicamente per la realizzazione di spesa in conto capitale ed investimenti, per il raggiungimento di obiettivi di infrastrutturazione basilare del Mezzogiorno, al fine di favorire il catching up che, pure, sembrava essere ripreso negli anni dal 2015 al 2018.

Vale la pena ricordare, peraltro, che una ulteriore conseguenze negative e impreviste dell’austerità europea è stata la tendenza a ridurre la componente della spesa in conto capitale che dà luogo agli investimenti in tutti il paese. Non solo si è ridotta la quota per il Mezzogiorno, ma si è ridotto anche il totale. Uno dei motivi è che questa componente è anche quella più facilmente controllabile nel breve periodo, quando si vuole far cassa. Infatti, occorrono riforme strutturali per ridurre la spesa per retribuzioni, acquisti della PA e contributi sociali (pensioni ed assistenza). Le riforme pensionistiche, ad esempio, non hanno un effetto immediato, in parte per renderle più facili da accettare, in parte perché richiedono tempo per produrre effetti. La spesa per acquisti della PA è anche difficile da ridurre e controllare. La spesa in assistenza serve per alleviare gli effetti sociali della crisi.

È più facile, allora, ridurre la spesa in conto capitale ed, infatti, questa componente si è ridotta in modo significativo, pur essendo già ai minimi termini, passando dal 5.3% nel 2001 al 4.2% nel 2015. La riduzione è più forte nel Mezzogiorno, ma anche nel centro-nord, soprattutto a partire dal 2009.

Eppure, le regioni in ritardo di sviluppo presentano spesso un evidente gap strutturale ed infrastrutturale che occorre colmare se le si vogliono portare al livello delle altre regioni più avanzate e fortunate dell’UE. Si pensi al Mezzogiorno d’Italia che presenta un gap infrastrutturale evidente nei confronti del resto del paese. La TAV si ferma a Salerno, vale a dire molto prima della Eboli del celebre romanzo di Carlo Levi. È necessario mettere subito in cantiere una TAV da Salerno a Palermo e una fra Napoli e Lecce, per non parlare di altre linee di comunicazione interne al mezzogiorno di maggiore traffico.

Molte delle principali località turistiche, tutte bellissime, della Calabria, della Puglia e della Basilicata sono difficilissime da raggiungere se non su gomma. Occorrono aeroporti di maggiori dimensioni vicino alle principali città del Mezzogiorno. Manca non solo una rete di trasporto su ferro adeguata ai tempi, ma anche una rete intermodale che colleghi un certo numero di piccoli aeroporti internazionali nei punti nevralgici del Mezzogiorno continentale. Da questo punto di vista, forse la Sicilia e la Sardegna sono meglio dotate di aeroporti, anche se poi mancano adeguati trasporti pubblici interni su ferro e su gomma. Una rete di aeroporti nelle principali località turistiche è stata per la Spagna un volano importante per il turismo. Gli investimenti infrastrutturali per il turismo avrebbero effetti immediati sulla crescita. Occorre poi favorire la ricerca e l’innovazione sia di base che nelle imprese.


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