L’elevata disoccupazione rischia di creare una “generazione perduta”. Queste le parole pronunciate nei giorni scorsi dal presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. A far parte di questa generazione perduta sono milioni di giovani europei senza lavoro. Ma anche, potremmo aggiungere, quel numero assai più ampio di giovani e adulti con lavori precari e bassi salari che nei Paesi europei, Italia inclusa, rappresentano ormai circa un terzo dei lavoratori.
Le parole di Mario Draghi riguardano l’economia europea. Un’economia debilitata da una profonda recessione che affronta, oggi, una lunga convalescenza. La cura che lo stesso Draghi sta somministrando a dosi massicce, non sta dando gli effetti sperati. La montagna di liquidità immessa nei mercati – a un ritmo di 80 miliardi di euro al mese – non si trasforma in adeguata domanda aggiuntiva di beni e servizi. I consumi e gli investimenti languono: l’economia europea sembra intrappolata in una “stagnazione secolare”. Se la ripresa economica rimarrà debole, non è escluso che la cura provochi effetti collaterali anche gravi, che le politiche attuate della Bce e dalle altre Banche centrali producano, cioè, nuova instabilità economica.
Da Sud, dalla Calabria, le osservazioni di Draghi potrebbero sembrare distanti. Eppure hanno molto a che vedere con la situazione economica che i dati nazionali impietosamente fotografano. La situazione di un Paese profondamente diviso. In cui le regioni del Nord, seppur lentamente, riprendono a crescere dopo sette anni di crisi. Mentre il Mezzogiorno, che maggiormente ha subito gli effetti della recessione, perdendo il 13 per cento del Pil, rimane indietro, ancor più distante di prima, dal resto del Paese. La Calabria, è la regione in cui le condizioni strutturali di ritardo pesano di più. I giovani meridionali più istruiti – “della generazione meglio istruita di sempre”, per riprendere le parole di Draghi – corrono un rischio altissimo di rimanere disoccupati, sottoccupati o precari. E perciò, comprensibilmente, giustamente, emigrano.
Si discute molto sulle responsabilità del ritardo economico del Sud. Si dibatte se le politiche regionali siano in grado di imprimere un’accelerazione allo sviluppo. Si trascura, però, un fatto ovvio. Ciò che accade in una regione, nel Mezzogiorno, non è affatto scollegato da ciò che accade nel resto del Paese. Anzi, la crescita regionale dipende, in larga misura, da quella nazionale. In un’economia che, come quella italiana, cresce poco è quasi inevitabile che i divari aumentino. Le politiche regionali possono avere un ruolo nello sviluppo, ma quelle nazionali contano assai di più.
Per ritornare alle parole di Draghi, ci si accorge oggi che la bassa crescita e la disoccupazione costituiscono i principali problemi delle economie europee. Problemi che la politica monetaria, da sola, non potrà risolvere. Negli anni scorsi, i governi hanno attuato politiche di austerità, come se l’equilibrio dei conti pubblici bastasse, di per sé, a ridare slancio alle economie. Si sono riformati i mercati del lavoro, come in Italia, pensando che la facilità di licenziamento bastasse a creare nuova occupazione. Mario Draghi ha citato il caso del Portogallo. Una nazione che ha fatto diligentemente i “compiti a casa”, attuando tutte le riforme imposte dall’Unione europea e dal Fondo monetario. Ma in cui circa un terzo dei giovani è senza lavoro. Al caso del Portogallo, si potrebbe affiancare, con buone ragioni, quello dell’Italia.
Più di altri Paesi europei, l’Italia è esposta a forti venti contrari alla crescita. Delocalizzazioni produttive, globalizzazione, invecchiamento demografico, debito pubblico elevato, sono alcuni dei venti contrari. A questi, si aggiungono i vincoli finanziari europei. Senza investimenti pubblici, senza politiche europee e nazionali che stimolino la domanda, è improbabile che la crescita riprenda in maniera adeguata, che la disoccupazione venga riassorbita in tempi brevi. È un problema che impegna il futuro. La generazione perduta rischia di diventare, tra qualche anno, quella di adulti con basso reddito e, dunque, di anziani senza pensione.