Governance della Sanità in Italia e in Calabria dopo la Riforma del Titolo V (*)
Introduzione Obiettivo principale di questa analisi è quello analizzare il tema della tutela della salute in termini di valutazione di politiche pubbliche. L’attore pubblico riveste sempre un ruolo decisivo nella definizione ed implementazione delle politiche sanitarie; lo fa, innanzitutto, selezionando il modello di organizzazione del servizio sanitario, che in Italia è costruito sul principio della universalità.
Negli schemi di rappresentazione degli attori rilevanti che concorrono alla definizione del sistema sanitario, le istituzioni pubbliche, sempre necessarie a livello regolativo anche nei modelli privatistici, acquistano, nei modelli pubblici, un ruolo preminente. Ruolo che, innanzitutto, trae il suo fondamento dall’articolo 32 della Costituzione, dove si prevede che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”; ma che poi trova nell’articolo 117 della Costituzione ulteriore specifica laddove si prevede che le Regioni emanino norme legislative in concorrenza con lo Stato (…).
Queste due disposizioni hanno generato un complesso ordinamento che tutela il diritto alla salute dei cittadini dove Stato e Regioni producono norme di rango legislativo, tendenti definire le regole del gioco. Ed una piena comprensione delle implicazioni che derivano dalle scelte di rango costituzionale non può che essere il necessario passo per introdurre logiche di governo e di gestione del sistema sanitario in linea con le fondamentali tutele dei diritti dei cittadini.
La differenza nei livelli dei Lea fra le regioni italiane testimonia che la Sanità italiana è una sanità diseguale in cui accanto a sistemi sanitari regionali prossimi all’eccellenza convivono sistemi sanitari che faticano a competere anche con i sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo. La tabella 1 mette in evidenza i divari regionali fra i Lea delle regioni italiane. Questi dati mostrano come oggi permangano divari molto forti fra le regioni italiane. L’indicatore Lea del Veneto è del 37% superiore a quello della Calabria e inoltre la Calabria mostra costantemente nel tempo, insieme alla Campania, fra le regioni sottoposte alla Verifica adempimenti la peggiore performance nel rispetto dei Lea.
1.- Analisi del contenzioso costituzionale In materia di “tutela della salute”, Stato e Regioni hanno prodotto un significativo contenzioso costituzionale. Dal 2002 al 2020 i ricorsi generati dai conflitti tra Roma e la periferia e presentati nell’anno davanti alla Consulta sono stati 278, con un andamento piuttosto lineare nel tempo (15 ricorsi in media l’anno, Figura 1). Il dato complessivo dei ricorsi Stato-Regioni segnala un andamento sostenuto del contenzioso costituzionale nel quadriennio 2002/2006 che trova una brusca riduzione nella successiva annualità 2007; si nota ancora che nel triennio 2008/2010 si raggiunge il picco della litigiosità, per poi proseguire un andamento a salti, con la punta di minimo nel 2014.
Guardando lo stesso dato esploso per singole Regioni (Figura 2), si evidenzia come nel primo quadriennio Regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna abbiano innalzato significativamente il conflitto di attribuzioni con lo Stato nell’intento di aprire spazi normativi alle autonomie regionali e/o di salvaguardare quelli esistenti. [1] Via via che si consolida l’orientamento della Corte costituzionale sul contenzioso, entrambe le Regioni riducono fino ad azzerare il numero dei ricorsi (Figura 3).
Figura 3 – Ricorsi Stato- Regioni andamento per anno nelle prime sette Regioni
Da questi dati possiamo trarre un giudizio di valore e cioè che la litigiosità si è sviluppata secondo un canone fisiologico ed ha portato al confronto di due ordinamenti, quello regionale e quello statale, sfociato in termini costruttivi nell’ultimo decennio dove si assiste ad una assenza di conflitto.
Di questo contenzioso poniamo ad osservazione 3 ambiti materiali riconducibili a leggi in materia di strutture sanitarie, personale sanitario e livelli essenziali di prestazioni. In materia di strutture sanitarie la Corte afferma che i requisiti minimi necessari per autorizzare e accreditare le strutture sanitarie sono norme di principio e, quindi, di competenza statale proprio per garantire uniformità di condizioni e adeguata concorrenzialità tra strutture pubbliche e private (sentenza n. 387/2007). Sullo stesso solco vengono poi decise ulteriori questioni che hanno portato a chiarire le competenze ripartite: sul tema dell’autorizzazione e dell’accreditamento delle strutture (sentenze n. 292/2012 e n. 238/2018); sul regime derogatorio nella fase di transizione dall’accreditamento provvisorio a quello definitivo (sentenza n. 161/2016); sulle particolarità presenti negli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in fondazioni di diritto pubblico (IRCCS) (sentenza n. 208/2015).
In tutte queste fattispecie la Corte ha ribadito la necessità per la legislazione regionale di muoversi secondo i principi fondamentali dettati dall’ordinamento statale. In materia di personale sanitario l’orientamento della Corte è costruito sulla regola del concorso pubblico, non violabile dalle norme regionali sia nell’accesso alla dirigenza medica (sentenza n. 81/2006) sia nell’introduzione di norme di spoil system (sentenza n. 27/2014).
Con riferimento ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) trova piena affermazione il principio costituzionalmente della di leale collaborazione.
2- La mobilità regionale La Calabria e la Campania sono anche fra le regioni italiane quelle che presentano i valori più elevati della mobilità sanitaria. Con un valore che si aggira rispettivamente sui 280 e sui 353 milioni di euro l’anno (Tabella 2). Se, invece, consideriamo i valori pro-capite il dato della Calabria diventa eclatante e vale 130 euro per abitante. Come dire che ogni calabrese ha indirettamente una tassa aggiuntiva di 130 euro per la sanità, una tassa figurativa, potrebbe dire qualcuno, una tassa occulta preferisco dire io, perché poi questo ammontare viene pagato in termini di maggiori imposte, maggiori ticket e minor qualità dei servizi e grava maggiormente sulle fasce deboli e sugli anziani, cioè su coloro che maggiormente hanno bisogno di servizi sanitari. Il piano di rientro vale per la Calabria circa 80 milioni di euro, cioè meno di un terzo di quanto costa la mobilità sanitaria. Ed è ben chiaro che basterebbe abbattere di appena un terzo la mobilità sanitaria per non aver più bisogno di piani di rientro.
Se poi andiamo a guardare quali sono le regioni che beneficiano della mobilità sanitaria troviamo curiosamente Lombardia ed Emilia Romagna, le regioni che in una certa misura si possono considerare come azioniste di maggioranza dei due raggruppamenti elettorali che a fasi alterne hanno governato l’Italia negli ultimi 25 anni. Diceva qualcuno che a pensare male si fa peccato, ma non si sbaglia mai e, in questo caso, la considerazione che nasce spontanea sull’impostazione delle politiche sanitarie nazionali, piani di rientro inclusi, è quella che queste politiche siano state costruite su misura e a vantaggio della sanità dell’Emilia Romagna e della Lombardia.
I successi della sanità dell’Emilia e della Lombardia sono anche finanziati dalla mobilità sanitaria di Calabria, Sicilia, Puglia, Campania e Lazio. E malgrado questo obolo versato, queste regioni vengono costantemente additate al pubblico ludibrio come regioni inefficienti. Se andassimo ad indagare sulla tipologia di prestazioni erogate in regime di mobilità sanitaria, troveremmo probabilmente che un buon 50% riguarda DRG (DRG, Raggruppamenti omogenei di diagnosi) che avrebbero potuto efficientemente essere erogati nelle strutture sanitarie della provincia di residenza. E allora una prima proposta di buon senso sarebbe quella di eliminare il perverso piano di rientro che di fatto relega la sanità delle regioni interessate in un limbo in cui mancano le risorse per i servizi essenziali e limitare la mobilità sanitaria solo a particolari DRG. Per gli interventi e gli esami di routine il servizio sanitario nazionale non dovrebbe rimborsare le spese fatte fuori regione.
Conclusioni L’excursus sui principi elaborati dalla Corte Costituzionale, calibrato sui quattro ambiti materiali sopra individuati permette di svolgere alcune riflessioni. Il quadro che ne discende conferma come il punto di maggior criticità sia rappresentato dai livelli essenziali di assistenza in corrispondenza dei quali la Corte Costituzionale ha espresso una riserva netta sull’applicazione di politiche di spending review strutturali che ne impediscano la reale fruizione. Una volta definiti i livelli essenziali di assistenza, vale a dire le prestazioni ed i servizi che lo Stato è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale in modo uniforme.
In ciascuno dei tre ambiti: quello della prevenzione collettiva, quelli dell’assistenza distrettuale e dell’assistenza ospedaliera, i livelli di assistenza devono trovare, innanzitutto, adeguate risorse finanziarie, ripartite tra le Regioni secondo criteri territoriali equi. Ma devono anche poggiare su modelli di organizzazione territoriali efficienti capaci di utilizzare le risorse. Da qui la necessità di indagare a fondo il meccanismo di distribuzione delle risorse del fondo sanitario nazionale, ma anche di individuare parametri di efficiente organizzazione del servizio su base territoriale.
Il quadro giuridico condiziona il sistema sanitario dal lato dell’offerta; con l’atto di accreditamento la Regione ne verifica il possesso di standard qualitativi, organizzativi (figure professionali abilitate ed in numero idoneo all’attività da svolgere) e strutturali (metri quadrati, sale e spazi, assenza di barriere architettoniche…), equiparando al pubblico le strutture ed i professionisti del privato. Il contenzioso costituzionale in questo ambito materiale segnala le criticità legate alla fissazione di requisiti minimi validi per tutto il territorio nazionale, dove la norma regionale diventa strumentale al tentativo di alleggerire i costi di struttura prodotti dall’ordinamento.
Tentativo che è naufragato anche per effetto della posizione rigorosa assunta dalla Corte Costituzionale che ha progressivamente chiuso gli spazi di autonomia regionale consolidando il ruolo dello Stato nel dettare i principi fondamentali in materia di Tutela della salute ed arginandone gli eccessi con il richiamo ai diritti fondamentali di assistenza (in materia di LEA) e di leale collaborazione.
La presentazione dei primi indicatori di politica economica è però schiacciante nel rappresentare una situazione di divario regionale evidente, sia nei Lea che nella mobilità regionale. La considerazione fondamentale che emerge da queste analisi e che occorre ripensare il modello del regionalismo italiano e soprattutto correggere alcune anomalie nate dalla riforma del titolo V della Costituzione che hanno dimostrato limiti evidenti nell’applicazione alla sanità.
Il Covid-19 ha contribuito a mettere a nudo chiaramente tutta la debolezza di un sistema che dietro un apparente aura di efficienza, nascondeva i limiti di un modello organizzativo che non aveva il paziente come riferimento finale. Si è costruito un sistema ospedalicentrico misto pubblico privato, che insegue i DRG più sostanziosi e che drena risorse, attraverso la mobilità sanitaria, ad altre regioni La sanità territoriale viene penalizzata e ridotta al lumicino, lasciando ai pronto soccorso degli ospedali il compito di diventare il trait d’union fra il paziente e il sistema sanitario. Un modello, in sostanza, che tendeva sostanzialmente ad ampliare i divari regionali della sanità piuttosto che ridurli.
La mobilità sanitaria sta pesantemente penalizzando la sanità delle regioni deboli come la Calabria, perché, a ben guardare, sta in questa mobilità elevata ed ingiustificata la causa del debito sanitario regionale. Il fondo sanitario nazionale, presenta in fatti valori pro-capite abbastanza omogenei fra tutte le regioni, segno, che al di là delle alchimie contabili la distribuzione della spesa sanitaria è basata su un criterio di eguaglianza dei valori pro-capite. Ma la mobilità sanitaria stravolge questa situazione portando ad un sottofinanziamento di alcune regioni e ad un sopra-finanziamento di altre regioni. È chiaro che il divario nei Lea può essere la causa della mobilità e che quindi un investimento per livellare i Lea regionali appare necessario per aggredire il problema della mobilità sanitaria, ma è innegabile alla luce dei fatti, che la quota di finanziamento persa dalle sanità regionali sia la principale causa del debito sanitario regionale. Vi sono due strade per risolvere il problema: la prima è stralciare la mobilità sanitaria dal bilancio sanitario delle regioni, la seconda meno drastica è quella di sovra-finanziare le regioni con un gap rispetto ai Lea per almeno un triennio con lo scopo di colmare il differenziale.
Poiché, però, nella gestione della pandemia è stato immediatamente evidente che è difficile avere una strategia di contrasto unica, che è pur necessaria, se 20 regioni possono decidere in maniera difforme, ma a ben pensare anche in condizioni di normalità una sanità regionale non fa che amplificare le disparità regionali, alimentando una competizione sulle risorse fra le diverse regioni il cui effetto è la mobilità sanitaria, una terza via più efficace potrebbe essere quella di tornare ad una sanità nazionale.
[1] nostre elaborazioni su dati estratti dalla banca dati sul “Contenzioso Costituzionale – Titolo V curata dalla Regione Emilia Romagna.
(*) Domenico Marino (UniRc) e Maurizio Priolo (Dirigente Consiglio Regionale della Calabria)