“Se il Governo non interviene, le Regioni falliranno”. Una consueta storia italiana all’apparenza, c’è sempre un Decreto Salva-Tizio da emanare. Una vicenda come tante che però racchiude al suo interno alcune insofferenze mai risolte del nostro ordinamento costituzionale. La struttura istituzionale del nostro Paese rappresenta un argomento fondamentale che ha significativi effetti anche sull’andamento economico del territorio. Da essa può dipendere ad esempio la composizione della spesa pubblica, il livello di pressione fiscale, le politiche di investimento, gli stanziamenti per innovazione e ricerca. Capire quale sia l’assetto più efficiente rappresenta un elemento cardine per ottenere buoni risultati in termini di performance. In tutto questo, la ripartizione delle competenze tra Stato e enti locali è questione di primaria importanza. Ecco perché quanto è accaduto nelle ultime settimane in merito a dissesti consumati o attesi di Regioni o Comuni è l’occasione per riflettere su un tema uscito dal dibattito pubblico dopo anni di centralità.
La vicenda
Il clamore trae origine da una pronuncia della Corte Costituzionale del 23 giugno 2015, in un giudizio di legittimità promosso dalla Corte dei Conti – Sezione regionale del Piemonte – inerente, per non essere troppo tecnici, la Legge di bilancio della Regione Piemonte. A causa dei ritardi dei pagamenti della Pubblica Amministrazione (sui quali occorrerebbe un capitolo a parte), con Il Decreto Legge n. 35/2013 varato dal Governo Monti, lo Stato tenta di sbloccare i pagamenti, stanziando circa 40 miliardi di euro. Si tratta in realtà di un prestito, tramutato in anticipazione di cassa, che le Regioni dovranno restituire in 30 anni. Tutto risolto? Macché. La maggior parte delle Regioni, tra cui il Piemonte, sceglie di inserire i fondi stanziati dallo Stato nella voce di bilancio delle Entrate dove sono inseriti i mutui e in prestiti in genere. Secondo la Corte dei Conti piemontese, ciò rappresenta una violazione dell’Art. 119 comma 6 della Costituzione, il quale proibisce l’indebitamento degli enti locali per spese diverse da quelle per gli investimenti. Secondo la Corte dei Conti piemontese, le Regioni avrebbero inserito i fondi stanziati dallo Stato tra le voci di entrata relative ai prestiti di lunga durata, senza però neutralizzare le stesse con corrispettive voci di spesa inerenti alla restituzione di tali prestiti. Così operando, i fondi sarebbero entrati a far parte del bilancio regionale ed avrebbero quindi consentito un aumento sul lato delle uscite con riguardo anche alle spese correnti proibite dal citato comma 6. La Consulta dà ragione alla tesi della Corte dei Conti piemontese. La decisione provoca, oltre al buco di bilancio, anche la necessità di ripagare il debito in 7 anni anziché in 30.L’impatto di un simile scenario rischia di causare il default delle Regioni coinvolte, Piemonte in testa. Si leva a quel punto il grido di allarme dei governatori e la materia diventa addirittura oggetto di presunto scambio tra Governo e Regioni coinvolte: salveremo le Regioni qualora accetterete i tagli alla sanità. L’accordo pare essere stato trovato (non se ne conoscono ancora i termini e i dettagli) e il debito verrà spalmato in 30 anni .
Nozione, introduzione e superamento del federalismo fiscale
La vicenda nel particolare probabilmente si chiude qui, ma induce una riflessione sull’architettura istituzionale del nostro Paese e sul ruolo degli enti locali, poiché non è certamente il primo caso in cui lo Stato deve intervenire per rattoppare situazioni di rischio finanziario in cui versano alcuni enti. Nella vicenda descritta, il problema scaturiva a monte dai ritardi nei pagamenti della PA, annosa questione che denota sicuramente un malfunzionamento endogeno del sistema, seppur con ampie differenze tra le diverse aree del Paese. Riflettendo sui rapporti di causation tra istituzioni e efficienca della PA, viene quindi da chiedersi se la piena attuazione del federalismo fiscale potrebbe in qualche modo limitare gli sprechi e le inefficienze degli enti locali e, di conseguenza, evitare che gli stessi debbano ricorrere con frequenza ai trasferimenti dallo Stato centrale e che non ne siano assuefatti. Da un punto di vista teorico, un modello di federalismo fiscale comporta la possibilità di dislocare poteri di intervento in tema di spese e entrate dallo Stato centrale agli enti locali. La Legge n. 42/2009, emanata in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, avrebbe dovuto segnare la svolta federalista. Ma trattandosi di legge delega, è finita pian piano nel dimenticatoio. I decreti attuativi sono arrivati in ritardo e solo per una parte minoritaria dei provvedimenti richiesti.
Sul nodo probabilmente più importante – quello della responsabilità politica degli amministratori – il D.lgs n. 149/2011 sembrava poter inserire meccanismi sanzionatori pesanti per gli amministratori locali e per dirigenti/funzionari e revisori dei conti, anche in merito al divieto di ricandidarsi per chi causa gravi dissesti finanziari. Ma anche in questo casomancano gli 8 provvedimenti di attuazione previsti dal decreto.
Sono stati fino a oggi emanati 9 decreti attuativi, 2 dei quali riguardano solo Roma Capitale. Tuttavia, solo 2 dei suddetti 9 decreti – quello sul Federalismo Municipale e quello che ha istituito il Fondo per lo Sviluppo e la Coesione – hanno trovato una quasi totale attuazione. Di contro, decreti importanti come il citato inerente ai meccanismi sanzionatori o quello sull’applicazione del c.d. criterio del costo standard sono rimasti privi di applicazione. Senza l’emanazione dei provvedimenti attuativi cui i vari decreti rinviano, le riforme restano incompiute. Questo avviene a causa dell’inerzia del legislatore, dalla mancanza di volontà politica e della farraginosità delle norme. Dopo 6 anni dall’approvazione della legge delega, il processo di implementazione si dimostra lento e del tutto inefficace sul versante dei risultati. Una riforma implementata a pezzi è futile, a volte anche dannosa.
E’ evidente che in Italia non è mai stato adottato un vero modello di federalismo fiscale.
Attualmente, le decisioni del Governo sembrano indirizzarsi verso un abbandono del modello federalista, per almeno due ragioni:
1) Nella riforma costituzionale in corso di approvazione, sparisce la potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni (finalmente), ma si riducono significativamente le competenze delle stesse Regioni.
2) La legge di stabilità prevede che un incremento dei beni e servizi che la Pubblica Amministrazione dovrà acquistare attraverso la CONSIP (Centrale Acquisti della Pubblica Amministrazione Italiana). Se questo può essere all’apparenza accolta come una notizia positiva (ne saranno entusiasti tutti i fautori dell’originalissimo esempio del costo della siringa in Veneto e in Campania..), non si può ignorare che dovendo passare obbligatoriamente per la CONSIP alcune Regioni virtuose sarebbero costrette a pagare di più per l’acquisto di beni e servizi rispetto a quanto pagherebbero in regime di autonomia. Ma è opportuno attendere il testo finale che verrà approvato in Parlamento per giudicare la misura..
Ovviamente non si può escludere che la riforma costituzionale e gli altri provvedimenti legislativi analoghi agli esempi richiamati possano avere effetti positivi in termini di efficacia della governance, considerata la dissennata gestione finanziaria di molte Regioni che parrebbe giustificare in teoria la riduzione delle competenze in capo a quest’ultime, anche allo scopo di diminuirne gli sprechi. Tuttavia, è inevitabile rilevare che riducendo il ruolo, l’autonomia e il potere discrezionale degli enti locali, ci si allontani inevitabilmente dall’idea di piena attuazione del federalismo fiscale.
Possibili vantaggi del modello federalista
Appurato pacificamente che non c’è mai stato alcun federalismo in Italia, è opportuno chiedersi se, a livello teorico e di normative analysis, l’implementazione del federalismo fiscale possa comportare dei vantaggi rispetto all’attuale sistema. Il federalismo potrebbe produrre buoni risultati in termini di incentivi, conducendo a una migliore allocazione delle risorse, almeno per le seguenti ragioni:
1. Dal punto di vista del cittadino, è molto più semplice valutare l’operato del politico locale rispetto a quello del politico romano. Infatti, percependo in via diretta le politiche del territorio, dei servizi, degli investimenti, si riducono le asymmetric information.
2. Se gli amministratori locali hanno maggiore autonomia fiscale, è più semplice discernere i “buoni” e i “cattivi”. Essi farebbero maggiore fatica a scaricare le loro responsabilità sullo Stato centrale: tu gestisci le entrate del tuo territorio (non tutte ovviamente), tu decidi le spese. Se fallisci, la responsabilità politica è chiara e inequivocabile.
3. Dal punto di vista dell’amministratore, se i finanziamenti statali si riducono e quindi gran parte della spesa si finanzia attraverso il gettito fiscale, si ha l’incentivo di raggiungere una maggiore efficienza e razionalizzazione della spesa e, al contempo, di provocare un aumento del gettito cercando di attrarre investimenti e migrazioni di imprese da altre Regioni o da altre nazioni. Ovviamente si obietterà (a buon ragione) che ciò potrebbe indurre un Governatore ad alzare le tasse per poter spendere di più, ma questo avviene già adesso (anche a causa degli aumenti automatici ex lege previsti di aliquote regionali dovuti ai disavanzi sanitari accumulati nel corso degli anni), con la differenza che attualmente gli enti locali ne scaricano la responsabilità sullo Stato centrale e non subiscono conseguenze (salvo eccezioni).
4. In generale, si ridurrebbe il fenomeno del Moral Hazard: se qualcuno paga sempre i tuoi debiti, hai l’incentivo di continuare a indebitarti.
Tuttavia, sul lato degli inconvenienti, non si può ignorare che l’introduzione di un sistema federalista in un Paese caratterizzato da un ampio divario di ricchezza tra le varie aree del territorio è impresa assai ardua. Gli squilibri macroeconomici tra Nord e Sud provocherebbero disagi sociali, in termini di servizi in primo luogo. E’ chiaro che occorrerebbe un massiccio ricorso al fondo perequativo per le Regioni in difficoltà, che potrebbe comportare a sua volta un rischio di Moral Hazard.
E la Calabria?
Rilevati alcuni dei possibili vantaggi che il federalismo fiscale potrebbe comportare a livello generale, occorre chiedersi quale potrebbe essere l’impatto di una tale modifica dell’assetto istituzionale in una Regione come la Calabria, dove gli sprechi nel settore pubblico sono notoriamente alti e il gettito fiscale storicamente basso. La domanda da porsi è se una maggiore responsabilizzazione degli amministratori locali possa apportare benefici o aggravare la già precaria situazione.
Nell’accezione popolare, si è sempre ritenuto che un federalismo fiscale rappresenterebbe un danno per la nostra regione. Due brevi considerazioni:
1) Non si può di certo affermare che il modello di Stato accentratore di poteri perseguito fino a oggi abbia favorito la Calabria. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
2) Il circolo vizioso del Moral Hazard è sempre difficile da estirpare, ma lo è ancor di più in un territorio che vive (o sopravvive) di assistenzialismo e clientelismo favorito da trasferimenti statali che assorbono risorse di altre Regioni. In un contesto economico deprimente, una maggiore responsabilizzazione in tema di autonomia fiscale potrebbe rappresentare un incentivo significativo per la classe dirigente al fine di operare con cognizione e seriamente, non potendo più contare sul flusso di finanziamenti continuo da Roma. In secondo luogo, anche i calabresi sarebbero costretti a interessarsi maggiormente alle decisioni della giunta regionale e delle giunte comunali, poiché queste avrebbero molto più potere di incidere sulle loro esistenze. Ecco allora che federalismo potrebbe significare accountability di amministratori e funzionari. Ma potrebbe significare anche un maggior coinvolgimento della società civile nei processi di policy-making.
Capire come reagirebbe l’amministratore locale agli incentivi del federalismo fiscale richiederebbe un’accurata analisi di behavioral economics. Tuttavia, è innegabile in prima facie rilevare che l’amministratore calabrese sarebbe certamente più responsabilizzato. E se in politica l’interesse particolare coincide con il mantenimento del consenso e la rielezione, l’amministratore calabrese razionale – essendo parzialmente privato della giustificazione di scaricare le colpe di un fallimento sull’organo gerarchicamente superiore – potrebbe essere incentivato a operare secondo un’attenta disciplina di bilancio caratterizzata da un efficientamento della spesa pubblica.
In secondo luogo, l’amministratore potrebbe essere incentivato altresì a prestare una maggiore attenzione al fenomeno dell’evasione fiscale, fortemente presente in Calabria: per finanziare la spesa è necessario che tutti paghino le dovute tasse, con evidenti miglioramenti anche in termini di legalità. Di contro, non si possono di certo sovrastimare gli eventuali benefici del federalismo fiscale, atteso che senza un miglioramento della classe dirigente calabrese, sarebbe un susseguirsi continuo di dissesti a danno dei cittadini. Inoltre, è molto probabile che gli effetti positivi del federalismo si dispiegherebbero in Calabria solo dopo un lungo periodo di transizione e di assestamento, che potrebbe anche comportare nel breve termine un peggioramento della situazione politica ed economica.
Concludendo, rinunciare tout court ai vantaggi di un federalismo fiscale – sia a livello nazionale, sia calabrese – appare una scelta quantomeno discutibile, soprattutto se si considera l’assenza di una valida alternativa. Perché il paventato nuovo accentramento dei poteri con lo Stato che impone tagli di spesa lineari e decide a monte le aliquote fiscali non pare di certo un’ opzione efficiente.
Sarebbe invece interessante riaprire il dibattito, basandolo su numeri e dati, in modo da far emergere pregi e criticità dell’uno o dell’altro sistema.
Riferimenti legislativi
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLMESS/941090/index.html?stampa=si&part=ddlmess_ddlmess1&spart=si
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/09042l.htm
http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2011;149
Riferimenti giurisprudenziali
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=181
Sitografia
https://www.portalefederalismofiscale.gov.it/portale/it/web/guest/ap_home
Il buco nei conti delle regioni: solo un pasticcio contabile?
http://www.lavoce.info/archives/38184/costano-cari-gli-acquisti-centralizzati/
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-10-06/il-nodo-titolo-v-e-rischio-tornare-conflitti-stato-regioni-110100.shtml?uuid=ACfT1sAB
http://stradeonline.it/monografica/478-bastoni-e-carote-nel-federalismo-fiscale