Si polemizza, in questi giorni, sui ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Non è chiaro se i ritardi dipendano dal governo, che non avrebbe attuato tutti gli adempimenti previsti, o dagli enti locali che, a corto di personale, hanno difficoltà a presentare i progetti. Una spiegazione non esclude l’altra, ma una cosa è certa. Dato il numero elevato di condizioni da soddisfare, non sarà facile portare a termine il PNRR rispettando i tempi e gli obiettivi stabiliti.
Le risorse da impiegare sono ingenti: ammontano complessivamente a 235 miliardi di euro. La maggior parte proviene dal Fondo per la ripresa (il Recovery fund), approvato dalla Commissione europea in risposta alla pandemia. L’Italia è il paese che ha ricevuto il maggiore stanziamento. È bene ricordare, però, che sui 191,5 miliardi ottenuti ben 122,6 (il 64%) sono prestiti, mentre 68,9 miliardi sussidi a fondo perduto. Pochi altri stati hanno richiesto prestiti: la Romania (15 miliardi), la Grecia (12,7 miliardi), la Polonia (12,1 miliardi) e il Portogallo (2,7 miliardi). Tutti gli altri hanno, invece, preso solo i sussidi. Così ha fatto la Spagna, che ha ricevuto circa 70 miliardi, e lo stesso hanno fatto Francia e Germania, per importi inferiori. In realtà, neanche i cosiddetti sussidi sono un “pasto gratis”. Sono anch’essi debiti, emessi dalla Commissione Ue (per complessivi 750 miliardi) che, prima o poi, dovranno essere rimborsati agli investitori.
Gli obiettivi del PNRR sono ambiziosi: sostenere la transizione energetica e digitale, ridurre le disuguaglianze sociali e tra Nord e Sud, realizzare infrastrutture, potenziare i sistemi d’istruzione e ricerca e la sanità. Non si tratta, però, solo di presentare progetti di spesa. Per ricevere i fondi, l’Italia si è impegnata ad attuare alcune riforme – come quella del sistema giudiziario, del codice degli appalti e della pubblica amministrazione – che, secondo una tesi diffusa, aumenterebbero il potenziale di crescita economica. Ci sono, poi, alcune condizionalità che vincolano l’azione politica, come si è visto quando il governo ha dovuto ritirare la proposta di aumento del tetto al contante perché ritenuta da Bruxelles incoerente con gli impegni assunti.
Da quando il governo Draghi ha presentato la versione finale del PNRR molto è cambiato. Il problema non è solo quello di adeguare i progetti all’aumento dei prezzi delle materie prime. L’attuazione del PNRR richiede numerosi adempimenti e procedure complesse. I tempi sono, poi, ristretti: il piano dovrebbe essere attuato entro il 2026. Non è un azzardo supporre che questo termine sia destinato a slittare, considerate le difficoltà che stanno incontrando anche altri paesi europei.
C’è poi il rischio che, pur di spendere, nel PNRR confluiscano progetti di dubbia coerenza con le sue finalità e che non hanno alcun impatto sulla crescita, come spesso avviene per i fondi strutturali europei. Ne abbiamo i primi riscontri. Nei giorni scorsi, la Commissione europea avrebbe espresso dei dubbi sull’ammissibilità dei progetti riguardanti lo stadio di Venezia e quello di Firenze che, in parte, graverebbero sul PNRR.
Non sembra, perciò, un’eresia chiedere la rimodulazione del piano, nel rispetto dei suoi obiettivi fondamentali, per affrontare le reali esigenze del paese: a partire dalla sanità, cronicamente sotto finanziata. Realizzare stadi, piste ciclabili o tante piccole opere, spesso incluse in progetti dai nomi fantasiosi, può aiutare a spendere ma non serve a far crescere la produttività o a ridurre i divari che caratterizzano il nostro paese. Far ciò sarebbe, quanto meno, discutibile, ancor più se si pensa che, in larga parte, i soldi del PNRR sono a debito. Se così fosse, come dar torto a chi suggerisce di rinunciare ai prestiti per utilizzare, al meglio, solo la quota dei sussidi?
Il presente saggio è stato pubblicato sul Quotidiano del Sud con il titolo “Nuvole sul PNRR” (Edizione del 6 Aprile 2023)