Nel 1861, al momento dell’Unità, il divario economico tra Nord e Sud Italia era molto modesto, certo assai inferiore a quello che si andò delineando nei decenni successivi. La differenza nel Pil pro capite, molto probabilmente, non superava il 10 per cento. Il Sud non era un blocco omogeneo, economicamente arretrato; il Nord non era ancora tutto industrializzato. L’Italia era un paese complessivamente arretrato, rurale, in cui le disuguaglianze all’interno degli antichi stati erano maggiori di quelle tra Nord e Sud. Il dualismo che caratterizzerà lo sviluppo economico italiano, alla data dell’Unità, ancora non esisteva.
Negli ultimi anni, la ricerca si è arricchita di nuovi dati e ricostruzioni quantitative, che dipingono un quadro che, quanto meno in parte, modifica l’interpretazione tradizionale sulle condizioni economiche del Mezzogiorno nei primi decenni post-unitari. Un nuovo importante contributo viene dal ponderoso volume di Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea, “La produzione industriale delle regioni d’Italia, 1861-1913: una ricostruzione quantitativa. Le industrie estrattivo-manifatturiere”, pubblicato dalla Banca d’Italia. In quasi 700 pagine, il lavoro di Ciccarelli e Fenoaltea offre una base di dati molto ampia e dettagliata sulla base produttiva regionale dell’epoca.
Nel 1861, la Campania aveva la maggiore produzione industriale d’Italia nei comparti estrattivo-manifatturieri. Con i suoi 39 milioni di lire (ai prezzi 1911), precedeva la Lombardia, con 36,8 milioni, il Piemonte, con 28,9, e la Sicilia con 21,7 milioni. In rapporto alla popolazione, considerate le dimensioni demografiche contenute, la regione più industriale era la Liguria, seguita dal Lazio. La Campania, con oltre 2,6 milioni di abitanti, era al terzo posto. La Lombardia, destinata a diventare, con le altre regioni del Triangolo industriale, la locomotiva d’Italia, si collocava dietro la Toscana. All’epoca, il prodotto dell’industria estrattivo-manifatturiera siciliana superava quello dell’Emilia.
Aspetti interessanti emergono dall’esame dei singoli comparti industriali. Nell’industria meccanica, la produzione della Campania era superiore, sia in termini aggregati, sia pro capite, rispetto a quella della Lombardia. Nel comparto chimico e dei derivati del carbone e del petrolio, Sicilia e Campania erano ai primi posti per produzione complessiva, seguite dal Piemonte. Se, poi, si ragiona in termini di prodotto pro capite, quello della Sicilia, della Campania e della Calabria era maggiore di quello del Piemonte e della Lombardia. Anche nella lavorazione dei metalli non metalliferi (cave, fornaci, vetro…), il primato, quanto a produzione, apparteneva alla Campania.
Nel complesso, nel 1861, il Sud produceva il 36 per cento del prodotto industriale italiano, con una quota di popolazione di poco superiore. Nel 1861, un cittadino meridionale produceva appena l’8 per cento in meno della media nazionale. Uno del Nord, solo il 5 per cento in più. Una differenza molto contenuta, dunque, in buona parte dovuta ai valori della Liguria e del Lazio, tenendo conto delle loro dimensioni demografiche. Si pensi alle differenze con il 1970, quando il valore aggiunto della manifattura meridionale rappresentava, appena, il 14 per cento del totale.
Nel seconda metà dell’Ottocento, la geografia industriale dell’Italia subì profonde modificazioni. Appena qualche anno dopo l’Unità, la produzione della Lombardia era divenuta maggiore di quella della Campania che, nel 1881, fu superata anche dal Piemonte. Nel 1901, il Nord produceva ormai i tre quarti del valore aggiunto manifatturiero italiano. Ben il 40 per cento proveniva dalle tre regioni del Triangolo industriale: Liguria, Piemonte e Lombardia. Il meccanismo del dualismo territoriale si era avviato. Nel primo decennio del Novecento, il processo di industrializzazione italiano accelerò e i divari crebbero. L’industria si concentrava nel Nord-Ovest che, nel 1911, produceva quasi la metà della produzione manifatturiera italiana. La Campania produceva appena il 42 per cento della Lombardia, il 66 per cento del Piemonte; l’Emilia sopravanzava la Sicilia. L’Italia era divenuta un’economia duale.
Sulle cause del ritardo meridionale sono state scritte migliaia di pagine. Si sono ricercate indietro, nella storia lontana, le radici del divario. Si è guardato ai Normanni, agli Angioni, ai Borbone. Si è proposta una diversità antropologica, una presunta differenza di “razza” o di cultura. Argomentato che la scarsità di capitale sociale, di reti fiduciarie o un diffuso familismo amorale costituiscano le ragioni profonde, fondamentali, del ritardo del Sud.
Ma i fatti cosa mostrano? Mostrano, innanzitutto, come differenze inizialmente modeste siano cresciute nel tempo. Come al Sud vi fosse una base produttiva industriale; con i suoi limiti, certo, e anche con la protezione statale. Ragionando come se al Nord, o anche all’estero, regnasse il più puro liberismo; come se forme di protezionismo non abbiano rappresentato, storicamente, politiche per sostenere, soprattutto agli inizi, l’industrializzazione.
I fatti mostrano come l’Unità coincise con una crisi dell’industria meridionale. Le commesse statali – come documenta un recente libro di Luigi De Matteo, “Un’economia alle strette nel Mediterraneo” (Edizioni scientifiche italiane) − vennero meno. Stabilimenti industriali furono chiusi. Il passaggio al liberismo e la cessazione delle commesse contribuirono alla crisi dell’industria meridionale. “L’Unità – scrive De Matteo – determinò nel Mezzogiorno un radicale mutamento delle condizioni di esercizio dell’attività industriale”. Il Nord godette di alcuni vantaggi. Infrastrutture più sviluppate, una maggiore disponibilità di fonti energetiche, una più diffusa scolarità, una geografia più favorevole. Vi furono, poi, concrete scelte politiche. Condizioni che, come scriveva Luigi Einaudi, portarono al Nord “più costruzioni di ferrovie, di porti e altri lavori pubblici, di scuole e di istituti governativi”. In Italia, l’industrializzazione fu un processo squilibrato. Nonostante gli interventi fatti, il Mezzogiorno rimase indietro, e le conseguenze di ciò gravarono, sotto molti aspetti, sullo sviluppo economico complessivo dell’Italia. I dati sull’industria di Ciccarelli e Fenoaltea, aiutano a ricostruire meglio i fatti e a comprendere le ragioni del divario.