La diffusione del Covid tra le regioni italiane: quando la geografia conta. I dati dell’8 maggio confermano la tendenziale riduzione del contagio in Italia, sebbene esista ancora una forte differenziazione regionale della diffusione dell’epidemia.
Pur in presenza di dati di bassa qualità, l’importanza della “geografia” si rileva anche da una semplice analisi descrittiva del numero dei contagiati pubblicati dalla protezione civile. L’implicazione è che ha poco senso guardare alla curva del contagio “italiano” per decidere quando e come consentire la piena ripartenza del paese. I dati nazionali dipendono per tre quarti da 5 casi regionali in cui il contagio è relativamente più diffuso (vedi tabella 1) e, quindi, ci sono molti altri territori in cui il virus è poco diffuso, se non del tutto assente. Se questo fosse vero, e sembra che i dati della protezione civile forniscano evidenza in tale direzione, allora diventerebbe importante regionalizzare il riavvio di tutte le attività economiche del paese. Diversamente da quanto si discute da settimane – apriamo/chiudiamo alcuni settori in tutto il paese in un determinato giorno – sarebbe opportuno distingure la ripartenza sia per attività economiche sia per regioni: l’approccio one size fits all sembra essere del tutto inappropriato in questo caso. A parità di attività economica e a parità di altre condizioni, è evidente che i rischi dipendono dalla “presenza” relativa del contagio nel luogo in cui quell’attività si svolge.
In data 7 maggio, in Lombardia, Piemonte e Marche ci sono più di 3 contagiati “attualemnte postitivi” ogni 1000 residenti. In Umbria 0.25, in Sardegna 0.29, in Calabria 0.38 (tabella 1). A Sud l’incidenza del contagio sulla popolazione è pari a 0.5 casi ogni 1000 abitanti, ossia 5 volte di meno rispetto alla diffusione relativa del virus tra i residenti delle regioni settentrionali (figura 1). Così come mostrano la figura 1 e la tabella 1, è molto diversa da una regione all’altra anche la densità del contagio, espressa come numero di casi per Km^2.