La fine della Grande Guerra lascia l’Europa in una situazione di forti squilibri sociali e economici. In questo contesto si fa strada l’idea neomalthusiana che uno dei fattori su cui far leva per temperare tali squilibri fosse proprio la riduzione delle nascite. Questa filosofia, ad eccezione che in Italia, si propaga rapidamente negli Stati Uniti e in tutta l’Europa, grazie al sostegno di eminenti scienziati fautori del birth control. Ma, a partire dalla metà degli anni venti, la preoccupazione s’inverte. Cresce, infatti, la paura che il vecchio continente stia perdendo sempre di più l’egemonia mondiale. Si diffonde così il terrore del declino demografico, declino che trovava il supporto scientifico in alcuni studi che, collegando l’andamento delle nascite agli andamenti futuri della popolazione, portavano a prevedere un’imminente decrescita demografica dell’Europa, nonostante la presenza di elevati livelli di natalità. Da qui la necessità e l’urgenza di adottare politiche pronataliste.
La politica demografica del fascismo
La preoccupazione di un declino demografico e l’urgenza di adottare politiche pronataliste in Italia vengono esplicitate da Mussolini nel discorso del 26 maggio 1927, giorno dell’Ascensione, discorso con cui spazza via il luogo comune della eccessiva natalità italiana, che in verità all’epoca raggiungeva ancora il ragguardevole livello di 27,5 nascite per mille abitanti.
L’Italia, per contare qualcosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore di 60 milioni di abitanti . Tutte le Nazioni e tutti gli imperi hanno sentito il morso della loro decadenza, quando hanno visto diminuire il numero delle nascite
(B. Mussolini, Discorso dell’Ascensione, 26 maggio 1927).
Il Duce era dunque molto preoccupato della prospettiva che anche l’Italia, come il resto dell’Europa, potesse conoscere nel prossimo futuro un calo demografico, prospettiva che venne sentita e propagandata come una minaccia mortale per le aspirazioni imperialiste del nostro Paese. Il regime fece così della questione demografica uno dei tratti centrali della sua politica, perché sconfiggere la prospettiva del calo della natalità rappresentava la precondizione di una politica italiana di potenza che del fascismo ne era la giustificazione storica. Proprio per questi motivi durante il ventennio vi fu un fiorire di studi demografici che vennero incoraggiati e utilizzati come sponda scientifica a sostegno della politica pronatalista del regime.
Ma Mussolini era anche consapevole che, nonostante questi sforzi, la politica demografica annunciata con il discorso dell’Ascensione aveva avuto nel frattempo una scarsa efficacia e ciò, in un clima di dominato dal confronto con il modello tedesco, contribuì alla svolta del 1937: in una seduta del Gran Consiglio venne infatti proclamato il rilancio della politica demografico – natalista. Subito dopo, con il RDL n.1542 del 21 agosto 1937, furono varati provvedimenti per sostenere direttamente o indirettamente la natalità e creato l’Ufficio centrale demografico a cui venne assegnato il compito della centralizzazione e della organizzazione della politica demografica.
Il fascismo legiferò molto in questa materia sia con misure positive, dirette al sostegno del matrimonio e della famiglia, prevedendo incentivi vari che rendevano vantaggiosa la prolificità delle coppie, ma anche con misure di carattere negativo, come l’imposta sul celibi, estesa via via a categorie in un primo tempo escluse, come gli ufficiali e i sottufficiali delle forze armate. Successivamente, e fino ad oggi, sono state in verità varate leggi e emessi provvedimenti che direttamente o indirettamente hanno avuto e hanno un impatto demografico, ma sempre al di fuori di un disegno organico, per cui – se si escludono le disposizioni contenute nella lex Julia e lex Papia Poppaea, emesse da Augusto rispettivamente nel 18 a. C. e nel 9 d. C., che costituiscono un dispositivo natalista senza eguali nella storia dei popoli – quella del regime fascista rimane l’unico esempio di politica demografica razionalmente progettata e realizzata in Italia.
La politica della razza
Mussolini nel contempo imbocca la politica della razza (pubblicazione del Manifesto della razza del luglio del 1938) e, per dimostrare di non essere un imitatore di Hitler, giustifica questa opzione come la naturale conseguenza della politica demografico- natalista portata avanti fino ad allora. Nell’agosto del 1938 ordina il censimento degli ebrei italiani; nel settembre dello stesso anno avviene l’espulsione degli insegnanti e alunni ebrei dalle scuole. Scelta questa strada egli organizza la macchina amministrativa, e così nel settembre del 1938 l’Ufficio centrale demografico viene trasformato in Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza). A seguito di ciò molti studiosi di demografia si vennero a trovare dentro le istituzioni anche involontariamente.
Tra le misure di carattere negativo con cui il fascismo intervenne per risollevare la natalità un posto particolare hanno avuto quelle sulla limitazione delle migrazioni interne. Subito dopo l’avvento al potere vi fu un aumento sensibile dei movimenti migratori interni che raggiunsero la cifra massima di un milione e mezzo di spostamenti interni nel 1937, nonostante i tentativi del regime di limitarli. Questo fallimento è da attribuire al ritardo con cui si intervenne su questa materia. Infatti, prima del discorso dell’Ascensione, in cui Mussolini lancia la sua campagna popolazionista che ha il suo punto di forza nella ruralità, l’urbanesimo era stato incoraggiato, magnificando le qualità delle grandi città, che ora invece diventano centri in cui si diffonderebbero più facilmente le pratiche neomalthusiane. In conseguenza di questo cambio di rotta vengono imposti via via numerosi vincoli sui trasferimenti di residenza: nel 1931 viene istituito il Commissariato per le migrazioni che aveva il compito tra l’altro di autorizzare gli spostamenti territoriali; nel 1939 venne varata la legge sui “Provvedimenti contro l’urbanesimo” con la quale s’introducono ulteriori e più severi paletti agli spostamenti interni, come il divieto di trasferimento nelle città con popolazione superiore ai 25 mila abitanti se non giustificato da motivi di lavoro o altri ben documentati.
Discussione
Va da sé che è legittimo porsi la domanda se la politica demografica del fascismo abbia di fatto influito ad innalzare la natalità e la fecondità. A giudicare dalle statistiche, l’insieme di questi provvedimenti non fece altro che temperare appena il processo di denatalità verso cui inesorabilmente l’Italia si stava incamminando. Infatti, la natalità che nel 1926 era di 27,7 nati per 1000 abitanti si ridusse costantemente fino a raggiungere il valore di 22,4 nel 1936, per riprendersi, ma solo debolmente, dopo i provvedimenti conseguenti al Gran Consiglio, raggiungendo il valore di 23,5 nati per 1000 abitanti nel 1940.
Bibliografia essenziale
A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Einaudi, 1976
R. Volpi, Storia della popolazione italiana dall’Unità a oggi, La Nuova Italia, 1989
C. Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, Il Mulino, 1997
G. Dalla Zuanna (a cura di), Numeri e potere. Statistica e demografia italiana tra le due guerre, l’ancora, 2004
F.Cassata, Il fascismo razionale, Carocci, 2006