L’alta letalità del Covid-19 in Italia dipende dal numero di anziani? Dati a confronto

Sulla base dei dati disponibili al 24 marzo, l’Italia è il paese con più morti per Covid-19 e con più elevato tasso di letalità al mondo. Nel nostro paese, il rapporto tra decessi e casi di contagio accertati è del 9,5% e raggiunge il 12% in Lombardia. Secondo i dati della Johns Hopkins University, alla data odierna, tassi di letalità da Covid-19 relativamente elevati, anche se inferiori a quelli italiani, si riscontrano anche in Spagna (7,2%) e Regno Unito (5%), paesi in cui l’epidemia è in rapida crescita. La letalità registrata in Italia risulta spropositata rispetto a quella di altre nazioni, come Corea del Sud (1,3%), Germania (0,4%), Austria (0,5%) e Norvegia (0,4%). In Cina, secondo i dati disponibili, la letalità è del 4%.

Per confronto, si consideri che, ad oggi, in Germania risultano 126 decessi a fronte di circa 29.500 casi di contagio accertati. In Italia, il numero totale di casi accertati è 2,2 volte quello tedesco, ma il numero di morti 48 volte maggiore. In Corea del Sud, i casi di contagio accertati sono 9.000 con 120 decessi. Il tasso di letalità in Italia è 7 volte quello della Corea e 22 volte quello della Germania.

Va sottolineato che queste cifre possono modificarsi significativamente, sia per i tempi d’incubazione del virus, sia per l’incremento dei casi che si sta registrando in Europa come in altri paesi. Nel caso della Corea, invece, il picco dell’epidemia è stato raggiunto il 29 febbraio e il numero dei nuovi contagi è oggi molto contenuto.

È stato ipotizzato che l’elevata letalità finora registrata in Italia dipenda dalla sua struttura demografica. Dopo il Giappone, l’Italia è, infatti, la nazione al mondo con più anziani rispetto alla popolazione.

Nella figura 1 si riportano le percentuali di ultraottantenni e i tassi di letalità da coronavirus in 22 paesi (16 europei più Australia, Corea del Sud, Giappone, Israele e Stati Uniti). Tra le due variabili si osserva un legame positivo, anche se non elevato. Si tratta, però, di un risultato da prendere con grande prudenza, perché basato su un campione esiguo di paesi e su dati provvisori.

La demografia non è sufficiente a spiegare completamente l’alta letalità dell’Italia. Facciamo alcuni confronti. In Italia le persone con più di 80 anni rappresentano il 7,4% della popolazione, mentre in Germania il 7%. Nel nostro paese ci sono 23 ultrasessantacinquenni ogni cento persone, mentre in Germania 21,6. Le due nazioni hanno, dunque, strutture demografiche simili, ma tassi di letalità – ad oggi – enormemente diversi. In Corea, l’età media della popolazione è nettamente inferiore a quella italiana (le persone più di 80 anni sono il 3,4% del totale) ma, come detto, il tasso di letalità è di gran lunga più basso. E anche in Giappone, che con 8,4 ultraottantenni ogni cento abitanti è il paese con maggiore quota di anziani al mondo, la letalità da coronavirus (3,7%) è minore di quella italiana, sebbene la diffusione dell’epidemia sia ancora limitata (1.140 contagi).

Le differenze nei tassi di letalità hanno diverse spiegazioni. Possono essere dovute, per esempio, alla classificazione dei decessi. In Italia, i decessi di persone con coronavirus vengono conteggiati tra i morti per coronavirus anche se la causa diretta della morte è una patologia preesistente. Non è garantito che anche altrove sia così. Il tasso di letalità dipende, inoltre, dal numero di casi d’infezione accertati. Se quest’ultimo è sottostimato rispetto al numero effettivo di persone contagiate, il tasso di letalità tende a essere alto. L’accertamento dei casi dipende, ovviamente, dalle diagnosi effettuate rispetto alla popolazione. Quando si fanno test su larga scala si riscontrano casi anche tra i contagiati asintomatici o con sintomi lievi e ciò riduce il tasso di letalità. La scelta di sottoporre a test solo soggetti sintomatici, come avvenuto inizialmente in Italia, ha l’effetto opposto. Ma non è solo una questione numerica. Come affermato dal direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, soprattutto nella fase iniziale dell’epidemia, effettuare diagnosi su ampia scala permette di frenare la diffusione dei contagi.

Secondo le stime, alla data del 15 marzo, la Germania aveva effettuato 2 mila test per milione di abitanti. In Corea, alla data del 20 marzo, erano stati effettuati 6.148 test per milione di abitanti. Quello coreano è il più vasto programma diagnostico per il Covid-19 al mondo dopo quello degli Emirati Arabi Uniti, la cui popolazione è, però, di circa 10 milioni di abitanti a fronte dei 51 milioni della Corea. Ciò ha consentito di isolare i contagiati, di cui sono stati tracciati i contatti con altre persone, per disporre efficaci misure di quarantena. Il caso coreano – come sottolineano gli epidemiologi– conferma come diagnosi e prevenzione abbiano grande importanza per il controllo delle epidemie.

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