Le fusioni tra comuni in Italia e il fondo del contributo statale Qualche giorno fa il Ministero dell’Interno ha pubblicato la ripartizione del 2019 dei contributi a sostegno delle fusioni e delle incorporazioni che in questi anni hanno interessato molti comuni italiani. Il fondo nazionale del 2019 ammonta a 46,55 milioni di euro, da ripartire tra ben 94 nuovi comuni. In media, il contributo per comune è pari a circa 495 mila euro. Nessun comune riceve il massimo ammissibile per fusione (2 milioni di euro). Dieci comuni ricevono più di un milione di contributo straordinario,[1] mentre valori inferiori a 100 mila euro si registrano in tre casi (Campiglia Cervo, Alto Sermenza e Alagna).
Esiste un problema. La questione cruciale di questa ripartizione è che rispetto ai calcoli teorici del contributo – pari al 60% dei trasferimenti statali del 2010 – i comuni ricevono di meno. Questa riduzione è dovuta al fatto che le risorse nazionali sono insufficiente per soddisfare le aspettative di ciascun comune e ciò dipende in larga misura dall’incremento del numero delle fusioni cui spetta il contributo: gli aventi diritto sono passati da 67 nel 2018 a 94 nel 2019. Nel 2018 la somma totale ripartita è stata pari a 47,55 milioni di euro ed è stata sufficiente a trasferire in due tranches quasi tutti i contributi attesi dai 67 comuni interessati. La somma finora stanziata per il 2019 è di 46,55 milioni di euro, di poco inferiore al totale 2018. Essa è insufficiente per trasferire i contributi ai 94 comuni che ne hanno diritto.
L’origine del problema. L’anomalia del caso – ora si discute del 2019, ma lo stesso valeva l’anno scorso – è che ab orìǧine si istituisce una struttura degli incentivi che spinge per le fusioni e che alimenta le aspettative dei comuni di ricevere decennali incentivi economici. Nello stesso istante si inserisce una cautela (“nei limiti degli stanziamenti finanziari previsti …” legge 56/2014 art.1/130) che crea caos perché, di fatto, rende indeterminato il bonus di ciascuna fusione. Il punto, quindi, è il seguente: che senso ha aumentare la quota per il bonus dal 20% al 60% dei fondi del 2010 se non si ha la certezza di una copertura finanziaria nei termini e nei tempi fissati dalla normativa nazionale sulle fusioni? E’ un meccanismo che inserisce incertezza nella determinazione degli incentivi per la fusione e, come sta accadendo in questi giorni, introduce panico sulla programmazione delle entrate e, quindi, delle spese dei bilanci di previsione dei comuni.
Il reintegro non e’ la soluzione. La soluzione di breve periodo è che il governo incrementi la dotazione annuale del fondo nazionale delle fusioni in modo da assicurare stabilità finanziaria ai comuni nell’importante periodo post-fusione. L’ammontare totale necessario non è elevato (non più di 40 milioni di euro) e, quindi, tutto dipende dalla volontà politica di ovviare a questa anomalia. Di recente il governo ha sanato quella dello scorso anno, reintegrando con mesi di ritardo i contributi del 2018. Può farlo già adesso per il 2019, sebbene lo stesso governo abbia qualche serio motivo per rinviare la decisione al 2020 e garantirsi, ora, qualche grado di libertà in più per controllare la spesa pubblica del 2019. Il ragionamento è questo: vi erogo un po’ oggi e per la restante quota ne riparliamo nel 2020.
Tuttavia, la soluzione di oggi di reintegrare subito l’annualità 2019 non risolve il problema di domani. Nolenti o volenti, il numero di fusioni tenderà a crescere perché in Italia le micro municipalità stanno prendendo sempre più coscienza dei vantaggi legati all’aggregazione e alla riorganizzazione dei modelli amministrativi delle comunità. Questo processo è più diffuso a Nord che nel resto del paese ed è più forte delle resistenze della politica locale che, per preservare spazi di azione nel mercato di nicchia del consenso comunale e regionale, tende a frenare – più a Sud che resto del paese – le spontanee spinte aggregative dei territori.[2]
Quattro proposte per la definitiva soluzione del problema. Al crescente numero di aggregazioni, il governo deve rispondere garantendo regole certe sul bonus post-fusione. Ecco quattro soluzioni al problema.
La prima soluzione è di eliminare dalla norma di riferimento la dicitura “nei limiti degli stanziamenti previsti”. In tal caso, il governo garantirà il flusso decennale di incentivi alle fusioni, indipendentemente dagli accadimenti annuali. E’ una soluzione che rende più credibile l’intento del legislatore di incentivare le fusioni e assicura certezza dei flussi finanziari ai nuovi comuni. L’unica incertezza è sul valore complessivo del contributo nazionale, ma le cifre totali non dovrebbero preoccupare i governi, ai quali rimane sempre la facoltà di rimodulare la legge degli incentivi in caso di incontrollata esplosione delle fusioni.
La seconda soluzione prevede che il governo finanzi nuove fusioni solo fino alla disponibilità del fondo annuale. E’ una soluzione che tutela le vecchie fusioni e ha due implicazioni. La prima è che le passate fusioni avranno la certezza di ricevere il 60% dei trasferimenti del 2010. La seconda implicazione è l’incertezza sulle nuove fusioni. Con regole chiare, questa incertezza potrebbe essere risolta ex ante, se il governo fissasse in largo anticipo la dotazione finanziaria annuale: se si osserva che il contributo atteso è basso o nullo, le comunità di riferimento possono anche decidere di bloccare o rallentare l’iter di fusione. In ogni caso, si potrebbe pensare di introdurre dei controlli anche a livello regionale, prevedendo, per esempio, l’approvazione finale dei consigli regionali previa disponibilità di risorse nazionali. Si tratta di una circostanza che assegna un nuovo ruolo ai consigli regionali che possono valutare l’opportunità – avendo pieno titolo per farlo – di istituire un nuovo comune in assenza della certezza sulla copertura decennale del bonus fusione.
La terza soluzione è di prevedere un cofinanziamento regionale da adottare nei casi simili a quelli ricorrenti in questi giorni. L’impianto normativo nazionale rimane lo stesso, ma si norma il vincolo per le regioni di concorrere alla copertura del bonus annuale finanziando la differenza tra quanto teoricamente assegnato alle fusioni e quanto effettivamente erogato dal governo. Anche questa soluzione ha delle implicazioni che dipendono da cosa già fanno le regioni in tema di fusioni. Per le regioni che già erogano incentivi regionali (per esempio, Emilia Romagna, Lombardia, Puglia, Veneto), il rischio è di perdere l’addizionalità che oggi esiste tra risorse regionali e fondo nazionale. Il caso merita approfondimenti. Per tutte le altre regioni, il cofinanziamento rappresenterebbe un meccanismo per smuovere il lassismo istituzionale delle regioni che ignorano e non promuovono le fusioni.[3]
La quarta e ultima soluzione è di annullare il fondo nazionale per le fusioni. In tal caso, si rimuove de facto la fonte dell’attuale incertezza e si veicola il messaggio, sensatissimo in un numero elevato di casi, che le fusioni sono vantaggiose anche in assenza del premio monetario.
[1] A Valsamoggia sono stati assegnati 1428966 di euro, seguito da Figline e Incisa Valdarno (1428966), Montoro (1428966), Casali del Manco (1187657), Borgo Virgilio (1101079), Fiscaglia (1081814), Casciana Terme Lari (1072920), Scarperia e San Piero (1046732), Vallefoglia (1014378) e Colli al Metauro (1011030).
[2] In Calabria, le due recenti fusioni con cui si sono istituiti i comuni di Casali del Manco e di Corigliano Rossano non si sarebbero avute se non ci fosse stata una pressante, costruttiva e partecipata sollecitazione da parte della società civile. In entrambi i casi, due movimenti – il Movimento Presila Unita per Casali del Manco e il Comitato 100 Associazioni per Corigliano Rossano – hanno seguito sin dal nascere il percorso delle due fusioni e lo hanno portato a termine anche sollecitando, quando necessario, la politica locale. L’azione delle istituzioni e dei partiti politici è stato residuale, intervenendo in momenti puntuali (per esempio, nel caso di inserimento nell’OdG del punto per deliberare in consiglio comunale), oppure in prossimità dei referendum, quando il lavorio di sensibilizzazione sui territori era già stato realizzato dai movimenti/comitati pro o contro le due fusioni.
[3] Per esempio, per il 2019 sul bilancio della Regione Calabria graverebbero circa 1,6 milioni di euro – a meno di aggiustamenti – che rappresentano la differenza tra quanto assegnato finora dal governo a Corigliano Rossano (845 mila euro a fronte dei 2 milioni di contributo atteso) e a Casali del Manco (1,12 milioni di euro nel 2019 a fronte di più di 1,6 milioni di euro di incentivo teorico).
(*) Una versione ridotta di questa nota è stata pubblicata sul Quotidiano del Sud (Edizione del 10 Luglio 2019)