Le strategie di sviluppo definite dalla Commissione Europea prevedono di incrementare, entro il 2020, il numero di ricercatori per un ammontare pari, nel caso dell’Italia, a circa 140000 addetti. Questo obiettivo è motivato dal deficit di ricercatori che l’Italia sconta nei confronti di altri stati membri dell’UE. Un deficit che pregiudica la possibilità di crescita del paese.
Se l’obiettivo nazionale di assumere nuovi ricercatori fosse distribuito in modo uniforme nel tempo e tra le regioni, otterremmo che la Calabria dovrebbe creare nuove posizioni lavorative in grado di occupare circa 1400 ricercatori ogni anno, da oggi fino al 2020. La sostanza del ragionamento non cambia al cambiare dei criteri con cui ciascuna regione contribuisce al perseguimento degli obiettivi nazionali. Se si tiene conto di numerosi parametri legati alla struttura dell’economia regionale, si ottiene che il numero minimo di nuova occupazione altamente qualificata da creare ogni anno è pari, nel caso della Calabria, a 830 ricercatori.
Da un lato, quindi, si guarda a quello che accade negli altri paesi europei e per la Calabria si osserva uno scenario iniziale in cui la presenza relativa di ricercatori è marginale. I dati ISTAT sugli addetti in Ricerca e Sviluppo indicano che nel 2012 la Calabria erano occupati 1895 ricercatori, equivalenti a circa lo 0.8% del valore (240179 addetti) nazionale. Per sopperire a questi ritardi, si cerca di formare altri ricercatori attivando corsi di laurea ad elevata qualificazione, dottorati di ricerca e corsi di alta formazione post-universitaria. Dall’altro lato, si osserva che molti dei “pochi” ricercatori già formati sono disoccupati o sottooccupati. Un dato su tutti. Dall’indagine sulla posizione occupazionale dei dottori di ricerca condotta dall’ISTAT nel 2014 si ricava che in Calabria sono stati intervistati in totale 376 individui, equivalenti a 2,3% dell’intero campione nazionale. Di questi, 204 intervistati hanno conseguito il titolo in Calabria nel 2008. A sei anni dal conseguimento del titolo, la loro posizione professionale indica che il 12,25% fruisce di una borsa di studio o di un assegno di ricerca e circa il 10% non lavora. Poco meno del 4% fruisce di una borsa/assegno e svolge anche un’altra attività lavorativa. Il restante 74% svolge un’attività lavorativa diversa da una borsa di studio o di un assegno. Analoghi valori relativi si hanno a 4 anni dal conseguimento del titolo, ossia per i dottori di ricerca del 2010. Similitudini si osservano anche confrontando i dati della Calabria con quelli del Mezzogiorno e dell’Italia (Tabella 1). Il dato preoccupante riguarda il tasso di migrazione dei dottori di ricerca calabresi del 2008 e del 2010: di questi il 40% svolge attività lavorativa in regioni diverse dalla Calabria.[1]
Abbiamo, quindi, pochissimi ricercatori e bassissima occupazione qualificata. Si tratta di un apparente paradosso che può essere spiegato dal fatto che in questo segmento del mercato del lavoro è del tutto assente la domanda di ricercatori da parte delle imprese. Chi assume ricercatori sono i centri di ricerca pubblici, oppure le università, mentre l’occupazione nel settore della ricerca industriale è del tutto trascurabile. Nel 2012, gli addetti in Ricerca e Sviluppo nel settore delle imprese erano 148, ossia meno dell’8% dei 1895 occupati relativi all’intero sistema regionale. La ricerca privata è sottodimensionata in una regione che investe poco in innovazione e che fa parte di un paese che sconta abissali ritardi rispetto ai paesi leader nelle produzioni innovative. Per la Calabria, il fenomeno è in buona parte legato al fatto che il sistema industriale regionale è dominato da imprese che operano in settori maturi, ossia che producono beni a bassissimo contenuto tecnologico. La dimensione aziendale aggrava il quadro, perché essa è al di sotto della soglia minima affinché le imprese avviino e realizzino progetti di ricerca di una certa scala.
Cosa fare, quindi, per aumentare in regione il tasso di occupazione dei ricercatori? A riguardo occorre dire che il settore pubblico non potrà più garantire nuova occupazione con la stessa intensità del passato (è sufficiente guardare al risicato reclutamento di ricercatori negli ultimi 4-5 anni nelle tre università pubbliche regionali per avere un segnale di questa tendenza). Ciò implica che una larga proporzione degli incrementi di occupazione (immaginiamo 830 all’anno fino al 2020) dovrà interessare le imprese. Non esistono alternative: il settore pubblico assumerà di meno (in termini relativi) e, quindi, se il sistema regionale vorrà avvicinarsi agli obiettivi del 2020 dovrà farlo stimolando le assunzioni nel settore privato.
Individuato il segmento del mercato che potrà attrarre nuova occupazione dei ricercatori, è utile ricordare che i vincoli dal lato della domanda di ricercatori dipendono non solo dalla dimensione e dal settore in cui le imprese operano, ma anche dal fatto che, con elevata frequenza, le imprese ignorano l’esistenza di soluzioni tecnologicamente avanzate dei problemi associati ai loro processi di produzione: in presenza di vincoli di natura tecnologica e/o organizzativa, le imprese non hanno consapevolezza dell’esistenza delle soluzioni che i mercati offrono. In altre parole, esiste una domanda latente di ricerca che deve essere resa esplicita.
La domanda regionale di ricerca delle imprese. Si tratta di una domanda che certamente non sarà in grado di garantire l’assorbimento dell’intero blocco di nuovi ricercatori, ma laddove debitamente valorizzata, potrà consentire al sistema produttivo regionale di guardare con fiducia agli obiettivi dell’agenda 2020. A tal fine, potrebbero essere di grande aiuto le azioni di audit tecnologico che si sono svolte sul territorio regionale da parte di CalabriaInnova, che è un progetto finanziato con soldi pubblici nell’ambito della Programmazione 2007-2013. Alla fine di questo processo, queste azioni dovrebbero consentire alle imprese sia di identificare il problema tecnologico-organizzativo sia di valutare l’attuazione di una soluzione. Affinché si abbia pieno soddisfacimento delle esigenze delle imprese è, altresì, importante che la mappatura dei fabbisogni innovativi sia la più ampia possibile (censuaria?), poiché essa consentirebbe di capire le variegate forme che assume la domanda regionale di ricerca delle imprese. Una domanda non più latente, ma che diventa effettiva e può essere soddisfatta nella misura in cui le politiche regionali per l’innovazione saranno in grado di cambiare la matrice degli incentivi delle imprese. E non è detto che le soluzioni richiedano necessariamente grandi investimenti e cospicui capitali. E’ possibile che una proporzione di questi fabbisogni innovativi venga soddisfatta ricorrendo a nuove assunzioni di personale altamente qualificato e di ricercatori. A riguardo, sarebbe interessante conoscere il numero di aziende dei cosiddetti settori maturi che potrebbero migliorare le proprie capacità e potenzialità tecnologiche semplicemente assumendo uno o pochi ricercatori. Nuova occupazione finalizzata a “mettere in moto” il capitale umano disponibile in regione. Potremmo capire la dimensione del fenomeno cui ci riferiamo: quante sono le imprese che si trovano in queste condizioni? Quanta nuova occupazione potrebbero garantire? Si tratta di dati che dovrebbero essere di facile consultazione come esito delle attività di audit tecnologico realizzato nell’ambito del progetto CalabriaInnova.
Sintesi. In base a queste ragionevoli argomentazioni, le politiche regionali per l’innovazione della nuova programmazione 2014-2020 non dovranno, quindi, copiosamente limitarsi a favorire la nascita di imprese che operano in settori innovativi, ma se vorranno avere un impatto sistemico, dovranno necessariamente guardare con maggiore attenzione alle imprese dei settori maturi che manifestano sia una domanda di nuova tecnologia sia una complementare domanda di ricercatori. La strategia di favorire l’occupazione di un ricercatore per ogni impresa che vanta e documenta elevate potenzialità di crescita (magari anche sui mercati internazionali) consentirebbe di perseguire almeno due obiettivi. In primo luogo, nel settore privato avremmo imprese meno dormienti e più orientate ai cambiamenti. Inoltre, limiteremmo la fuga in altre regioni/paesi di persone altamente qualificate. Si può fare. E’ difficile, ma non impossibile. Peraltro, in questa legislatura c’è sufficiente finanza pubblica di matrice comunitaria che può essere mobilitata per attuare una simile strategia occupazionale.
[1] Questa percentuale è il risultato del confronto tra i dati della regione dove è stato conseguito il titolo e quelli della regione dove si svolge l’attività lavorativa diversa da borse di studio e assegni di ricerca.