L’opinione di Carmelo Petraglia. È un dato di fatto che la “partita” del Presidente della Repubblica non può essere scissa da quella della stabilità del governo. Anzi con ogni probabilità è proprio questo lo scoglio da superare nel confronto in corso tra i partiti: indicare una soluzione per il Colle condivisa dalla stessa maggioranza che sostiene il Governo Draghi per preservarne la continuità. Questo è il nodo da sciogliere per salvare governo e legislatura (perché è anche noto l’interesse di deputati e senatori di arrivare a fine mandato) e garantire al Paese la stabilità che serve per superare l’emergenza della pandemia e procedere senza scossoni con l’attuazione del PNRR.
Ma esiste una prospettiva di più ampio respiro e a più lungo termine nella quale va collocata l’importanza del momento.
Marzio Breda ha definito “Capi senza Stato” i Presidenti della Repubblica che hanno attraversato la Grande Crisi italiana. Da Cossiga a Mattarella, con strumenti e stili molto diversi, ma con la stessa finalità di rispondere alla crisi del nostro modello di democrazia rappresentativa, si è allargata la “fisarmonica” dei poteri costituzionali “altissimi e vaghissimi” di cui dispone il Quirinale.
Persistendo la crisi dei partiti nazionali, il prossimo Presidente sarà molto probabilmente ancora gravato dallo stesso compito di “supplenza” in futuri passaggi di “latitanza” della politica. Ma con la pandemia sono soprattutto venute al pettine tutte le problematiche legate al corto circuito istituzionale che blocca scelte decisive per il Paese nel campo delle politiche economiche e sociali.
Sull’onda lunga degli effetti dell’integrazione europea da un lato e del federalismo all’italiana dall’altro, si sono ristretti progressivamente gli ambiti nei quali la politica economica nazionale può muoversi. Le scelte dello Stato sono state compresse “dall’alto” dal rispetto dei parametri europei e dal basso dal regionalismo incompiuto introdotto dalla Riforma del Titolo V della Costituzione che di fatto ha mutato la forma di Stato da unitario a regionale.
Il settennato del nuovo Presidente incrocerà la ridiscussione delle regole europee: si tornerà alla “vecchia” Europa o archivieremo definitivamente l’austerità? E la politica sarà in grado di arrivare finalmente ad un’attuazione piena del Titolo V?
Se l’Italia vuole uscire dallo stallo economico e sociale ha bisogno di una nuova Europa con meno vincoli e più solidale. Un presidente autorevole potrà contribuire a far rappresentare, con più forza, l’interesse nazionale in Europa. Ma non basterà (e non è detto che arriverà…) una riforma delle regole europee. Servirà fare una scelta definitiva sul nostro assetto istituzionale interno. E un garante forte e autorevole della Costituzione servirà eccome a sollecitare Parlamento e Governo ad uscire dall’indefinitezza e dal conflitto nei rapporti tra Stato e Regioni. Con una scelta netta: attuare il nuovo Titolo V o abrogarlo e restituire allo Stato parte delle competenze devolute alle regioni.
Queste sono le vere sfide che vanno al di là della contingenza e degli interessi del momento. Perciò nei prossimi anni le prospettive economiche e sociali del Paese non saranno indipendenti, anzi potrebbero risultare addirittura profondamente condizionate (nel bene o nel male), dalla volontà e dalla capacità che il successore di Mattarella mostrerà di incidere sulle fondamenta dello stallo istituzionale e politico nel quale il Paese si trova dalla fine della prima repubblica. Non per sostituirsi a governo e parlamento, ma per esercitare quella funzione di moral suasion sulla politica che nel tornante post-pandemia che il Paese si appresta ad affrontare sembra quanto mai decisiva.