*pubblicato su “Il Quotidiano del Sud”, edizione del 26 marzo 2017
L’accresciuto interesse per i piccoli comuni dipende da almeno 4 concomitanti circostanze che in questo periodo rendono auspicabile una rilettura del ruolo delle piccole municipalità e una ridefinizione degli assetti istituzionali del territorio.
Il primo aspetto da ricordare è che tutti abbiamo consapevolezza di come le politiche fiscali restrittive di matrice comunitaria abbiano pesantemente intaccato l’erogazione dei contributi pubblici dal centro verso le periferie. Per molti comuni, il periodo di maggiore decurtazione dei fondi corrisponde agli anni 2011-2014. Dal 2015 al 2017, i tagli si sono arrestati per molte municipalità, ma il gap con il 2010 rimane ragguardevole. Un secondo elemento di valutazione è che l’impianto della politica economica europea e nazionale forza la razionalizzazione della spesa pubblica e, in tale ambito, i piccoli comuni sono percepiti come centri di spesa in cui si annidano sacche di inefficienza. Queste procedure avranno (hanno già avuto) un impatto significativo in Italia a causa della diffusa presenza sul territorio di piccoli comuni. Facendo riferimento a casa nostra, si pensi che ben 324 comuni (ossia il 79% dei 409 comuni calabresi) hanno meno di 5000 abitanti e occupano il 67% della superficie totale della Calabria. Molti territori, quindi, sono a bassa densità di popolazione e sono governati in modo frastagliato da una moltitudine di comuni che nella stragrande maggioranza dei casi soffre di cogenti vincoli di liquidità finanziaria. Il terzo elemento di interesse è che la riduzione dei trasferimenti statali è accompagnata da un cambiamento dei criteri di perequazione nazionale. Le nuove regole tendono a far pesare di meno le spese storiche, mentre un crescente ruolo lo avrà il fabbisogno standard, ossia la spesa minima necessaria per consentire ad una comunità di soddisfare i bisogni di base, valutati con criteri standard. Il nuovo meccanismo tende a perseguire anche l’obiettivo di ridurre l’incentivo alla spesa da parte delle periferie. Secondo la Corte dei Conti, il graduale passaggio alle nuove regole determinerà già nel 2017 delle perdite fino a 15,90€ ad abitante in Italia. Nel 2021 la riduzione dei trasferimenti per i piccoli comuni sarà elevata: essi riceveranno l‘8,5% in meno rispetto a quello che otterrebbero se si applicasse il vecchio metodo basato sulla spesa storica. Poiché questa perdita è abbastanza uniforme su tutto il territorio nazionale, si può ragionevolmente affermare che è i piccolissimi comuni italiani saranno svantaggiati dall’applicazione del nuovo piano di perequazione, indipendentemente dalla loro localizzazione. In tale ambito, le implicazioni per le municipalità calabresi dovrebbero essere rilevanti, poiché, come già detto, in Calabria è presente una pletora di micro-comuni.
L’ultima circostanza che aiuta a capire perché oggi parliamo molto di comuni è legata alla legislazione nazionale a sostegno delle fusioni. Il governo premia con un incentivo finanziario i comuni che decidono di aggregarsi. Il nuovo ente riceve un “bonus fusione” calcolato in base ai contributi statali ricevuti nel 2010 dai comuni aderenti al progetto di fusione. Attualmente questo incentivo è pari al 50% delle somme del 2010, mentre per le fusioni concluse prima del 2016 era pari al 40%. E’ variato anche il contributo massimo che ogni singolo progetto può ricevere a partire dall’istituzione del nuovo comune. Oggi, ciascuna singola fusione può ottenere al massimo 2 milioni di euro all’anno, mentre per le fusioni effettuate fino al 2015 la soglia era di 1,5 milioni di euro. L’ultimo rilevante dato è che per ciascuno dei 10 anni successivi alla fusione, il nuovo comune riceverà il 50% dei contributi percepiti nel 2010. Questi dettagli segnalano, in modo inequivocabile, l’interesse dei governi a stimolare le aggregazioni. L’aspetto su cui si fa leva è di cambiare gli incentivi finanziari dei comuni e lo si fa aumentando le determinanti del “premio” monetario per la fusione. Merita una riflessione anche il fatto che i calcoli del bonus sono realizzati fissando come anno base il 2010. Come detto in precedenza, dopo il 2010 i tagli ai comuni sono stati elevati. Pertanto, ancorare il premio alla somma più elevata osservata dal 2010 in poi, significa recuperare tutta la liquidità dispersa nel tempo. Alcune simulazioni del gruppo di lavoro di OpenCalabria su molte possibili aggregazioni comunali indicano come l’incentivo alla fusione sia talmente elevato da compensare in un solo anno i tagli accumulati nel periodo 2010-2016. Il fermento sulle fusioni nasce anche dal fatto che il premio è addizionale, ossia non intaccherà, in alcun modo, i fondi che i nuovi comuni riceveranno in base ai parametri della perequazione nazionale. Inoltre, il bonus è senza alcuna condizionalità di spesa, nel senso che le nuove municipalità lo potranno utilizzare per gli obiettivi che riterranno più consoni allo sviluppo del territorio. Si manterrà il vincolo di bilancio, ma in presenza di più elevati trasferimenti statali (bonus fusione più trasferimenti ordinari), il vincolo si potrà soddisfare, per esempio, sia abbattendo la tassazione locale sia aumentando la spesa dei servizi offerti. La dotazione finanziaria annuale del fondo nazionale per le fusioni è di 30 milioni di euro. E’ incerto se a fronte di una maggiore domanda per le fusioni, la dotazione finanziaria aumenti (verosimilmente si, dato che i governi stanno facendo di tutto per stimolare questi processi), ma è certo che il fondo nazionale può essere integrato da disponibilità regionali (così come si sta facendo in alcune regioni italiane).
Poiché l’interesse è elevato, è utile ricordare che fino al 2016, in Italia, sono state realizzate 37 fusioni, interessando 87 comuni. Solo una fusione è stata finanziata nel Mezzogiorno d’Italia, mentre le restanti 36 hanno interessato Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Toscana, ossia i luoghi che hanno segnato la storia della creazione dei comuni in Italia. Nessuna fusione si è conclusa in Calabria, nonostante l’avvio della procedura (a diverso livello di elaborazione) per alcune proposte di aggregazione (Cosenza-Rende-Castrolibero; Presila Cosentina; Presila Catanzarese; Rossano-Corigliano, Cardinale-Chiaravalle Centrale-Torre di Ruggiero; Crotone-Strongoli-Isola Capo Rizzuto).
Per le circostanze istituzionali e di politica fiscale brevemente descritte in precedenza, la mancanza di interesse per le fusioni che si ha in Calabria appare ingiustificata. Sicuramente è tale dal punto di vista contabile ed economico. Certamente non si può motivare questo disinteresse pensando a qualche specificità regionale a tutela della “calabresità” locale. Esistono almeno tre ordini di motivi a sostegno di questa conclusione. Da un lato, è dogmatico pensare che le aggregazioni disperdano le identità dei luoghi. Significherebbe dire che i grandi centri sono a bassa memoria. Il che non è vero. In secondo luogo, le fusioni in Italia sono realizzate nelle aree ad alta tradizione sul ruolo dei comuni e non è credibile che in quei luoghi si vogliano annullare secoli di storia. Il terzo motivo è una combinazione dei precedenti due punti. Urge indirizzare il dibattito sulle differenze che esistono tra comunità e amministrazione comunale. Le due possono coincidere come territorio di riferimento (la comunità con i propri valori storico-culturali vive ed è dispersa sulla superficie di un’unica amministrazione comunale), ma la storia dei borghi italiani mostra come l’amministrazione di un comune sia compatibile con la presenza di diverse comunità aventi variegate identità. In sintesi, se si limita la discussione alle dinamiche interne dei piccoli comuni calabresi, il ragionamento esplicitato in questa nota consente di affermare che le ragioni dell’assenza di fusioni in Calabria sono altre, ma rimangono palesemente incomprensibili. Forse un peso lo gioca la mancata disciplina regionale e l’assenza su questi temi da parte della Regione Calabria, che sembra aver rinunciato a svolgere il suo ruolo di guida e di indirizzo nei processi di governance territoriale delle circoscrizioni comunali. Poiché i territori sono in fermento, è il caso che la Regione Calabria si svegli e si riappropri delle sue funzioni istituzionali che le assegnano il ruolo di promotore e facilitatore dei processi e non di semplice osservatore.