I Rapporti regionali della Banca d’Italia forniscono un utile strumento per individuare le debolezze e i punti di forza della struttura economica delle diverse aree del paese. Per la Sardegna il Rapporto 2019 indica come le prime siano di gran lunga superiori agli ultimi. Quest’anno la crescita del PIL regionale è positiva, ma si cresce troppo lentamente e a tassi inferiori alla media italiana. Tuttavia, il dato che più preoccupa non è il differenziale di crescita tra la Sardegna e l’Italia, ma il fatto che da troppo tempo tutta l’economia italiana fa molta fatica a uscire da una fase di ristagno. Quali le ragioni di questo lungo e lento declino?
Per comprendere le dinamiche di lungo periodo bisogna cercare le origini del problema nei fattori strutturali della nostra economia. E il Rapporto BdI 2019 riporta diverse analisi che identificano nei bassi livelli di capitale umano uno dei colpevoli. Il ruolo del capitale umano emerge in modo netto in due approfondimenti che contengono, a mio giudizio, il dato peggiore e quello migliore per la Sardegna.
Partiamo dal dato peggiore. Il Rapporto evidenzia come, tra il 2009 e il 2014, vi sia stato un aumento significativo e superiore alla media italiana degli indicatori di disuguaglianza dei redditi da lavoro. Tra il 2014 e il 2018, invece – sia in regione che in Italia – il livello delle disuguaglianze è rimasto stabile, ma ancora non accenna a rientrare ai livelli pre-crisi. Scomponendo il dato, si osserva inoltre che, nel caso sardo, l’aumento dell’indice è attribuibile quasi integralmente alla crescita della quota più elevata di individui che vivono in famiglie senza reddito da lavoro, e come tra questi vi sia una incidenza maggiore di individui che vivono in famiglie con a capo una persona con un titolo di studio basso.
I dati positivi si trovano, invece, nell’analisi del mercato del lavoro. In particolare, il tasso di disoccupazione tra i giovani sardi è diminuito in modo significativo: per la componente 16-24 anni, i dati Eurostat 2019 più recenti, non ancora pubblicati al momento della stesura del rapporto, indicano per la Sardegna una diminuzione del tasso di disoccupazione dal 50% del 2014 al 35,7% del 2018. Gli occupati crescono soprattutto nei servizi, sia quelli legati al turismo che alcuni comparti riferibili al settore pubblico, come sanità e istruzione. Ma è scomponendo il dato per livelli di istruzione che si osservano le dinamiche più interessanti. Si scopre, infatti, che in questi anni la crescita dell’occupazione regionale è tra i laureati. Al contrario, per i diplomati e per coloro con al massimo la licenza media i numeri mostrano una dinamica nel decennio negativa.
Dunque, buone notizie. Almeno per i nostri giovani e i nostri laureati che trovano, finalmente, un’occupazione anche nel mercato del lavoro regionale. Tuttavia, non tutti trovano occupazione in professioni che richiedono qualifiche alte: i due quinti dei laureati viene, infatti, assorbito da lavori che richiedono qualifiche medio-basse. Siamo, dunque, in presenza di overeducation? Produciamo troppi laureati per le esigenze della struttura produttiva regionale?
In realtà, i problemi delle disuguaglianze e delle dinamiche negative del mercato del lavoro suggeriscono semmai il contrario, come mostrerò fra poco. In questo, il ritardo non riguarda solo la Sardegna. Se si guarda oltre l’Italia, è facile constatare che negli ultimi decenni tutte le economie avanzate hanno adottato politiche di massiccia espansione dell’istruzione, inclusa quella terziaria. Ciò ha rappresentato il prerequisito indispensabile per lo sviluppo di nuovi settori e nuove professioni che richiedono qualifiche alte. I grandi investimenti in istruzione sono riconosciuti come uno degli ingredienti che ha consentito a quelle economie di crescere a tassi superiori al nostro.
Purtroppo, tra i paesi industrializzati l’Italia rappresenta l’eccezione. Siamo gli ultimi sia come quota di laureati nella popolazione che di spesa in istruzione terziaria sul PIL. E siamo lontani dall’attuazione di politiche di intervento efficaci nelle aree del paese che presentano livelli patologici di abbandono scolastico. Ogni anno i risultati dei test Invalsi, compresi quelli appena pubblicati, ci ricordano l’enorme divario negli apprendimenti tra gli studenti del Nord e quelli del Sud.
Torniamo ora al problema dell’aumentata diseguaglianza degli ultimi anni. I bassi livelli di istruzione offrono una chiara spiegazione. Il progresso tecnologico non è neutrale. La teoria economica e i dati recenti indicano l’esistenza di una complementarietà tra nuove tecnologie e lavoratori qualificati e, al contrario, la sostituibilità tra nuove tecnologie e lavoratori non qualificati. La presenza di progresso tecnologico pervasivo implica, inoltre, che settori e mansioni che prima potevano essere svolte da lavoratori non qualificati necessitino attualmente di un iniziale bagaglio di solide conoscenze, da aggiornare continuamente. Anche i dati di un settore low-tech come il turismo, in forte crescita nella regione da diversi anni, indicano che la domanda di prodotti turistici non può più essere più soddisfatta da forze di lavoro non qualificate. In questo mercato la Sardegna, con una quota di popolazione laureata del 16%, si deve confrontare tra gli altri con le Canarie, la Corsica o le Baleari il cui tasso di laureati arriva al 30%.
Per quanto “isola”, neppure l’economia sarda può isolarsi dalle dinamiche sempre più veloci di fenomeni complessi come il progresso tecnologico e la globalizzazione. E oggi una società con scarse competenze non riesce a guidare e governare i processi, ma subisce il cambiamento. I dati precedenti indicano come la trasformazione dell’economia sia comunque in atto e lasci al momento più sconfitti che vincitori. Riassumendo, troppi laureati? No, è vero l’esatto contrario. Per governare l’enorme cambiamento in corso e combattere le disuguaglianze, in Sardegna come in Italia, dobbiamo partire da (molta) più istruzione di qualità.