Numerose distorsioni del sistema scolastico italiano penalizzano i processi di apprendimento degli studenti. Sebbene l’esito finale dipenda da molti fattori – tra cui le abilità individuali e i contesti ambientali e familiari – è indubbio che il tempo trascorso nelle aule sarebbe a maggiore impatto se l’intera filiera fosse orientata a svolgere in modo efficiente una funzione – quella educativa e formativa – che è centrale nelle dinamiche del paese.
Più volte si argomenta che è un sistema che non premia le eccellenze. Per ragioni di variegata natura, i risultati generati dalla scuola pubblica mostrano una tendenza all’appiattimento verso il basso. Qua si prova a ragionare su come scardinare un anello della filiera che amplifica questa tendenza. Si fa riferimento al fatto che la scuola, in lato sensu, non premia la classe docenti.
Senza voler entrare nei dettagli (i) delle politiche di reclutamento del personale, (ii) della possibilità di fare docenza in ambienti lavorativi adeguati alla crescita professionale, (iii) sulle attitudini dei docenti a diventare docenti, (iv) sul diritto alla mobilità dei docenti e sulla conseguente instabilità degli organici, l’idea che si intende sviluppare è centrata sull’esistenza e sulle implicazioni del salario unico e della crescita salariale legata in modo esclusivo all’anzianità.
Una conseguenza della remunerazione unica è la tendenziale disaffezione al lavoro dei docenti che si collocano nelle code alte della distribuzione dei rendimenti professionali. Nel corso del tempo, i più bravi osservano un trattamento economico uguale a quello dei colleghi meno inclini all’insegnamento e come potenziale reazione scelgono di abbassare (in media) lo sforzo lavorativo, dedicando meno tempo e meno risorse intellettuali alla docenza. A parte i docenti che svolgono quest’attività per vocazione e con passione, è ragionevole affermare che il sistema oggi in vigore non premia i migliori, ossia coloro che dovrebbero trascinare tutti gli altri fuori dalla trappola del basso impegno. Al contrario, i bravi vengono risucchiati nel ciclone dell’appiattimento formativo.
E’ difficile uscire dai circoli viziosi che caratterizzano la scuola italiana, ma qualche soluzione bisogna pur formularla. Salvaguardando gli interessi occupazionali e reddituali di tutti, una proposta potrebbe essere quella di assegnare premialità salariali ai docenti che si collocano nella code alte della “docenza di qualità”. Un salario differenziato per tener conto dell’esito della propria attività. E’ un meccanismo che non penalizza alcuno, nel senso che i livelli del salario (e la crescita dello stesso) sarebbero quelli attualmente in essere. Così come rimarrebbero inalterati tutti gli altri diritti maturati durante la carriera lavorativa. L’unica differenza sarebbe un extra-salario per i più bravi.
Si sorvola sull’osservazione di capire come identificare i più bravi (esistono buone metriche che garantiscono l’individuazione dei rendimenti dei docenti) e ci si sofferma sui potenziali vantaggi di una simile correzione salariale. Il primo effetto sarebbe quello di mantenere elevata l’attenzione sul posto di lavoro da parte dei più bravi: l’incentivo a rimanere bravo è legato ai guadagni addizionali. La seconda importante implicazione è di stimolare le attività di chi oggi è disaffezionato e, quindi, minimizza lo sforzo in aula. Un effetto traino che dovrebbe spostare verso l’alto l’impegno medio dei docenti e determinare, quindi, un significativo incremento dei risultati complessivi espressi in termini di apprendimento degli studenti. Creare, infatti, un ambiente in cui i docenti sono ad elevata motivazione funge certamente da stimolo per migliorare i processi di apprendimento. Inoltre, la probabilità di ottenere maggiore reddito dalle attività di docente, limiterebbe l’incentivo a fare altro al dì fuori dell’orario scolastico da parte di chi può svolgere attività parallele all’insegnamento. Fare altro non è un male in sé, ma può diventarlo se l’insegnamento si configura come una seconda attività. Infine, l’extra-salario renderebbe meno attrattivi i progetti extra-curriculari, qualora questi fossero utilizzati da parte dei docenti come un’addizionale finestra reddituale. Questo meccanismo servirebbe anche ad attrarre nelle scuole anche quelli che oggi considerano la docenza un’attività poco remunerativa, in termini sia relativi sia dinamici. A regime, avremmo docenti più bravi, più motivati e, in media, a più elevata remunerazione.
A raccontarla in questo modo, sembrerebbe una procedura fattibile e con un esito indiscutibilmente migliorativo rispetto alle condizioni attuali. Esistono, tuttavia, almeno due ostacoli che ne rallentano la potenziale applicazione.
Il primo ostacolo è legato al vincolo su cui questa nota non dedica molto spazio e che riguarda l’individuazione dei più meritevoli. Tecnicamente è possibile risolvere questo problema di identificazione, ma il processo necessariamente deve essere filtrato da qualche forma di valutazione e ciò potrebbe rappresentare un vincolo alla sua adozione, a causa delle resistenze alla valutazione (Perché valutare? Come si valuta? Chi valuta?). Si tratta, tuttavia, di vincoli superabili.
Il secondo ostacolo è di natura finanziaria. Quanto costa questo meccanismo? Chi dovrebbe finanziarlo? Per funzionare in modo ottimale l’incremento economico deve essere sostanziale. Al fine di stimolare gli individui a fare ottima didattica, il differenziale salariale tra i bravi e i meno bravi deve essere elevato. In caso contrario, nessuno ha incentivo a mettersi in gioco. Diciamo che una soglia potrebbe essere un premo almeno pari al 40% del salario corrente. La logica è questa: i bravi sono consapevoli di esserlo e partecipano al programma di incentivazione perché, in caso di vittoria, sanno ex-ante che possono guadagnare 140 al posto di 100. Si tratta di un differenziale elevato che stimola la partecipazione dei singoli per innalzare la qualità dell’insegnamento. E’ verosimile pensare, che a regime, i costi di questo programma debbano essere a carico dello Stato, che ha interesse a migliorare la qualità del sistema scolastico nazionale. Ad avvio del programma, però, la cifra totale da prevedere in bilancio non è nota, poiché è incerto il numero dei premiati. Qualcuno potrebbe obiettare che è anche incerto l’esito del programma. Chi garantisce che i più bravi rispondano agli incentivi e aumentino la qualità della loro docenza? Chi garantisce, quindi, che l’incentivo economico ai docenti possa servire per migliorare l’apprendimento nelle aule scolastiche?
Si tratta di dubbi legittimi sull’ammontare e sull’efficacia della spesa. Questioni tipiche di molte altre scelte di politica economica, che inizialmente vengono risolte con l’avvio di esperimenti. Un progetto pilota su un ristretto territorio, i cui risultati saranno utilizzati per valutare l’estensione del provvedimento su scala nazionale. A riguardo, la Calabria potrebbe essere un buon caso-studio per effettuare la sperimentazione. Il sistema scolastico regionale necessita, infatti, di scossoni migliorativi. La Regione Calabria, soprattutto attraverso l’Assessore con delega nel settore, (i) è chiamata a mostrare interesse verso l’istruzione, (ii) ha margini di intervento e, soprattutto, (iii) ha finanza (leggi risorse comunitarie 2014-2020) a sufficienza per prendersi carico dei costi di un progetto pilota. Un esperimento a valere, per esempio, sugli anni scolastici 2016-2017 e 2017-2018, il cui esito, se positivo, migliorerebbe lo stato di salute del sistema regionale e consentirebbe di ottenere evidenza empirica sui possibili effetti e sui probabili costi se fosse applicato in tutte le scuole italiane.
Che cosa si dovrebbe fare di innovativo, anche rispetto alle procedure fissate dalla Buona Scuola? Si tratterebbe di individuare un team di lavoro indipendente dall’apparato, con esperti in valutazione provenienti anche da altre regioni. Questo team, in modo autonomo, dovrebbe scegliere un numero di scuole rappresentative del sistema scolastico regionale e, soprattutto, dovrebbe chiarire alla classe docenti gli obiettivi annuali del progetto e le tecniche di valutazione. Non dovrebbe premiare le attività di coordinamento e gli incarichi istituzionali dei docenti, non dovrebbe premiare lo svolgimento di attività didattiche integrative, ma dovrebbe fissare l’attenzione solo sui rendimenti scolastici degli studenti. Monitorando nel tempo le competenze degli studenti su ciascuna materia, il team sarebbe in grado di misurare, a parità di condizioni, l’effetto dinamico della docenza.
E’ evidente che per quanto esposto in questa nota, la proposta della legge 107/2015 sull’erogazione di bonus a favore dei docenti è da considerarsi poco efficace perché da un lato viola l’ipotesi di indipendenza del valutatore (i dirigenti scolastici non lo sono) e dall’altro lato assegna poche risorse a ciascuna scuola rispetto a quelle necessarie per poter cambiare la matrice degli incentivi dei singoli docenti. Riguardo la proposta del progetto-pilota, qualcuno potrebbe obiettare sull’opportunità che sia una regione ad avviare la sperimentazione. I potenziali benefici sono due. Il primo vantaggio dipende dalla decisione di proporsi nel paese come un ente che, in modo complementare rispetto alle attività ministeriali, investe ingenti risorse finanziarie sull’istruzione, ossia sulla componente più importante del processo di creazione del proprio capitale umano. Il secondo benefico è legato all’esito della sperimentazione: se è positivo, vuol dire che il miglioramento delle competenze degli studenti per singola materia è dipeso, a parità di condizioni, dalle attività in aula dei docenti, ai quali viene erogato l’extra-salario. L’implicazione più importante di tutto ciò sarebbe una radicale rivisitazione dei metodi e delle finalità di alcuni aspetti – quelli legati al bonus – della Buona Scuola del Governo Renzi.