Quali investimenti per il Mezzogiorno?

La legge 27 febbraio 2017 n. 18, in sede di conversione del “decreto legge” sulla coesione  territoriale del 29 dicembre 2016,  aveva stabilito, fra i principi di riequilibrio territoriale, di destinare alle regioni del Mezzogiorno una quota delle spese in conto capitale delle amministrazioni pubbliche centrali pari a circa il 34%, corrispondente alla quota del Mezzogiorno sulla popolazione italiana. Il 17 gennaio 2018 il Ministro per il Mezzogiorno Claudio De Vincenti ha preannunciato che le direttive necessarie per l’applicazione di questo principio saranno emanate entro febbraio 2018.

Secondo un’analisi retrospettiva della Svimez, l’applicazione di questo principio negli anni dal  2009 al 2015 avrebbe comportato  un trasferimento dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno di spese in conto capitale delle amministrazioni centrali dell’ordine di 4,5 miliardi di euro all’anno. Secondo le stime della Svimez, se fosse stato applicato questo principio, la riduzione del prodotto interno lordo del Mezzogiorno fra il 2009 e il 2015 sarebbe stata del 5,4%  invece che del 10,7%, e quella del Centro-Nord sarebbe stata del 7,6% invece che del 6,8%, con una riduzione quindi del 2,2%, invece di un aumento del 3,9%, della distanza fra Mezzogiorno e Centro-Nord in termini di PIL.

D’altro canto, però, a parità di altre condizioni, l’adozione di questo principio  comporterebbe un aumento di circa il 10% dei trasferimenti (residui fiscali) dal Centro-Nord verso il Mezzogiorno. Si può pensare che sia politicamente realistico un simile aumento  dei trasferimenti fiscali dal Nord verso  il Sud dopo che i referendum del 22 ottobre 2017 hanno evidenziato in  Lombardia e Veneto forti maggioranze a sostegno di una loro significativa riduzione? D’altronde,  già nella finanziaria del 2005 era stato stabilito di riservare al Mezzogiorno il 30% degli investimenti ordinari delle amministrazioni pubbliche centrali, ma neppure questo meno ambizioso obiettivo si riuscì a realizzare negli anni successivi.

Stando così le cose, strategie di sviluppo del Mezzogiorno politicamente realistiche dovrebbero essere formulate tenendo conto dell’impraticabilità politica di un aumento dei trasferimenti fiscali verso il Mezzogiorno. Al centro di questa strategia potrebbero esserci sgravi fiscali per il lavoro in attività produttive a mercato internazionale, attualmente presenti in misura estremamente limitata in gran parte delle regioni del Mezzogiorno. Si tratterebbe anche in questo caso di misure di stimolo agli investimenti nel Mezzogiorno, ma di natura diversa: non investimenti in strade, ponti, metropolitane ecc., ma  investimenti nell’acquisizione di capitale umano in attività produttive a mercato interazionale attraverso processi di “learning by doing”.

Misure di questo tipo, stimolando in misura significativa la competitività delle localizzazioni produttive del Mezzogiorno, potrebbero avere un effetto complessivamente positivo sui saldi di finanza pubblica e quindi sui residui fiscali, poiché il reddito prodotto in queste attività stimolerebbe la  domanda, e quindi la produzione nel Mezzogiorno, di beni a mercato locale, che ovviamene non  beneficerebbero di sgravi fiscali. E’ questa la strada intrapresa con le Zone Economiche Speciali che dovrebbero essere estese a gran parte del Mezzogiorno.

E’ sui vincoli che la Commissione Europea impone su strategie di sviluppo di questo tipo, e non su quelli riguardanti i saldi complessivi della finanza pubblica, che sarebbe opportuno per l’Italia promuovere un confronto deciso con le istituzioni  dell’Unione Europea.


Antonio Aquino, Università della Calabria e Co-fondatore di OpenCalabria


 

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