Rapporto Istat 2019. Si accentua il malessere demografico

Il 20 giugno scorso il Presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo ha illustrato alla Camera dei Deputati il Rapporto Annuale 2019-La situazione del Paese. Il Rapporto, giunto alla ventisettesima edizione, analizza gli aspetti fondamentali della società italiana: lo sviluppo recente della sua economia, le tendenze demografiche, il mercato del lavoro e così via, nel tentativo di fornire una lettura integrata e originale degli accadimenti di questi ultimi anni. Da un rapido esame si colgono le molte ombre e pochi sprazzi di luce di un Paese che registra un netto rallentamento della crescita del Pil rispetto al 2017; una riduzione dei consumi delle famiglie italiane per mantenere il più possibile immutato il loro tenore di vita, ma anche un calo della disoccupazione dal 12,2% al 10,6%, che tuttavia resta largamente superiore a quello dell’area euro. Ancora: un peggioramento del clima di fiducia dei consumatori e una accentuazione del malessere demografico, fenomeno sul quale vogliamo soffermarci più da vicino.

Accentuazione del malessere demografico. Tre sono i tratti demografici più critici che si colgono dal Rapporto: la diminuzione inarrestabile delle nascite, l’accentuazione dell’ invecchiamento della popolazione e, dal 2015, la riduzione dei residenti che verosimilmente continuerà nei prossimi decenni, dapprima lentamente, poi più velocemente, con la conseguenza che la popolazione italiana nel 2050 diminuirebbe a 58,2 milioni di abitanti, 2,2 milioni in meno rispetto a oggi. E’ bene ricordare che queste tendenze sono  già implicite nella struttura demografica attuale. Infatti, le generazioni del baby boom sono uscite da tempo dall’intervallo riproduttivo e stanno entrando nella fascia della terza età; prosegue l’aumento della sopravvivenza e continua il calo della natalità. Tutto ciò produrrà un massiccio invecchiamento demografico che nel 2050 si manifesterà con un incremento degli ultra 65enni di 9 -14 punti percentuali rispetto al 2018 (oggi è il 23%). I giovanissimi, nel’ipotesi più favorevole, potrebbero rimanere al livello attuale del 13,5%, mentre sembrerebbe verosimile che la quota dei 15- 64enni si ridurrebbe, rispetto a oggi, di oltre 6 milioni. Si prevedono, dunque, ripercussioni importanti e negative sull’organizzazione dei processi produttivi, sulla struttura e qualità del capitale umano, sul welfare. Oggi –  viene sottolineato nel Rapporto – è già difficile garantire un’assistenza dignitosa ai quasi 14 milioni di ultra 65enni, e sarà ancora più complicato mantenere i livelli odierni di assistenza quando gli anziani saranno 5 milioni in più. Inoltre, la tenuta del welfare sarà ancora più problematica quando gli ultra65enni, nei prossimi venti anni, aumenteranno dai 13 milioni di oggi a 19 milioni; quando ai grandi vecchi di oggi (800 mila) si aggiungerà un altro mezzo milione e i 14 mila ultra centenari fra venti anni aumenteranno a 50 mila.

Impoverimento del capitale umano. Un altro aspetto che sta emergendo con forza è l’inarrestabile impoverimento del capitale umano del Mezzogiorno. Infatti, il Rapporto registra il sistematico deflusso dei giovani dai 20 ai 34 anni dalle regioni del Mezzogiorno verso il Centro – Nord. Dal 2008 al 2017 Campania, Puglia, Sicilia e Calabria hanno avuto una perdita di 282 mila  giovani 80% dei quali con livello d’istruzione medio alto (Figura 1).

Figura 1. Saldo migratorio interregionale dei giovani italiani dai 20 ai 34 anni per livello di istruzione. Anni 2008-2017 (valori in migliaia)

La perdita di capitale umano dal Mezzogiorno ha riguardato non solo le migrazioni interne ma anche quelle internazionali. Infatti, negli ultimi dieci anni i trasferimenti di residenza, da e verso l’estero, evidenziano un saldo migratorio sempre negativo e una perdita netta di circa 420 mila residenti italiani, metà dei quali (208 mila unità) è costituita da giovani dai 20 ai 34 anni, in gran parte in possesso  di un livello d’istruzione medio -alto.

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