Il Rating di Legalità – Introdotto nel nostro Ordinamento alla fine del 2012, il Rating di Legalità consiste in un complesso di mezzi di premialità riservato alle aziende aventi sede in Italia e fatturato uguale o superiore ai 2 milioni di euro annui che consente l’iscrizione in un elenco pubblico – gestito dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – di imprese che non hanno riportato condanne e non sono coinvolte in procedimenti giudiziari per illeciti compiuti dai propri soggetti apicali, che forniscono garanzia di non aver subito infiltrazioni mafiose e che si caratterizzano per l’ attenzione rivolta alla corretta e sostenibile gestione del business.
Oltre al riconoscimento del punteggio base di accesso all’elenco, simboleggiato da una stelletta, le imprese possono ottenere valutazioni superiori, rappresentate da segni “+” ed aggiuntive stellette (fino ad un massimo di tre) qualora siano in possesso di ulteriori requisiti quali, tra gli altri, l’aver adottato modelli organizzativi per il presidio del rischio di commissione di reati, l’aver aderito e rispettare i contenuti dei protocolli di legalità sottoscritti tra le Prefetture e le associazioni di categoria, l’essersi dotate di procedure anticorruzione e per la tracciabilità dei pagamenti ed, eventualmente, l’aver denunciato fatti estorsivi subiti.
L’iscrizione in tale elenco comporta immediati benefici in sede di concessioni di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché di accesso al credito presso gli istituti bancari.
La diffusione dello strumento – I dati relativi alle nuove istanze di attribuzione del Rating di Legalità ed alle istruttorie chiuse nei primi nove mesi del 2015 diffusi dall’Autorità Antitrust testimoniano un continuo aumento delle richieste da parte delle imprese, probabilmente dovuto alla prospettiva di un suo futuro utilizzo nell’ambito dei sistemi di affidamento di opere e servizi pubblici, anche in ottica anticorruttiva.
Eppure, nel mondo imprenditoriale resistono atteggiamenti di disilluso scetticismo nei confronti di questo come di ogni altro mezzo con il quale l’Ordinamento cerca di far assumere alle aziende private un ruolo attivo nella prevenzione dei crimini, scetticismo fondato, soprattutto, su una visione di breve periodo che non trova negli attuali benefici predisposti dal Legislatore un incentivo sufficiente a compensare i costi inevitabilmente legati alle attività di presidio interno della legalità.
La legalità come terreno di competizione tra le imprese – Nonostante le descritte resistenze, pare opportuno riflettere sul fatto che attraverso i nuovi istituti che onerano le imprese e gli enti pubblici di tale controllo – oltre al Rating anche le norme anticorruzione, antiriciclaggio ed il Decreto 231/01 – si sta introducendo in Italia un sistema nel quale gli operatori del Mercato sono chiamati a competere tra di loro anche sul terreno della legalità.
Sia che si debba concorrere per l’affidamento di un appalto o per la stipulazione di una convenzione con un ente pubblico, sia che si vogliano instaurare rapporti commerciali con grandi partners nazionali o internazionali, un efficace e documentabile controllo interno di legalità risulterà essere, sempre più, una condizione imprescindibile.
Se ciò è vero, ferma la legittimità di certi dubbi manifestati da alcuni soggetti interessati, bisogna chiedersi se sia possibile e saggio tirarsi fuori da tale competizione, o anche solo correre il rischio di farsi trovare impreparati rispetto agli altri operatori.
Il punto è, o dovrebbe essere, come armonizzare tale controllo con i sistemi di gestione già esistenti e sfruttarli in funzione di una maggiore efficienza e del miglior funzionamento dell’Azienda, perché è evidente che un maggior controllo può contribuire ad impedire anche sprechi ed infedeltà oltre che la sola commissione dei reati, ma pure che eventuali sovrapposizioni di regole o duplicazioni di funzioni creerebbero sicuri effetti antieconomici.
Meno evidente, ma altrettanto rilevante, è che l’adozione di strategie di prevenzione del rischio reato, se adeguatamene comunicata anche all’esterno, consentirebbe all’impresa un sicuro ritorno in termini di reputazione e di percezione di affidabilità da parte dei propri clienti, dei fornitori e degli investitori.
Bisognerebbe, inoltre, riflettere sui gravi effetti del lungo disimpegno istituzionale sul versante della prevenzione dei reati economici e sui benefici che esso ha riservato alle grandi organizzazioni delinquenziali ed agli amministratori pubblici che ad esse hanno ceduto. La ricchezza e la competitività che, secondo i noti studi statistici, sono stati perduti dalla nostra economia a causa del fenomeno criminale e della corruzione sono, infatti, in larghissima parte, ricchezza e competitività sottratte alle piccole e medie imprese.
Certo, non può dimenticarsi che la storia recente delle nostre Istituzioni è piena di strumenti che, nati per essere di sostegno alle imprese private, hanno finito per diventare inutili orpelli che ne appesantiscono solo il già pesante carico di adempimenti burocratici. Tuttavia, pare scorgersi nei nuovi strumenti sopra indicati alcuni elementi di rottura con le precedenti esperienze: la “convergenza” di strumenti indirizzati a soggetti diversi (aziende, enti pubblici, pubblica amministrazione) verso il medesimo obiettivo; l’utilizzo di un armamentario uniforme e già familiare al mondo delle imprese (risk management); l’ampio utilizzo di mezzi di premialità accanto a quelli repressivi; un aumento lento ma costante del consenso intorno ad essi e dell’estensione del loro utilizzo in ambiti diversi da quelli per i quali erano stati inizialmente pensati.
Per tutti questi motivi, detto che la persistente diffidenza di parte degli operatori non può certo dirsi incomprensibile, il rifiuto categorico di aprirsi all’innovazione nel campo del presidio interno della legalità potrebbe rivelarsi un errore strategico. Già oggi, esso priva l’impresa dei benefici naturalmente connessi alla diffusione di un clima di legalità ed alla formalizzazione di un chiaro contesto organizzativo; in prospettiva futura, tale scelta rischia di relegare a ruoli marginali soprattutto le aziende che operano in aree geografiche svantaggiate.
In quest’ottica, il Rating di Legalità non è il costoso bollino che l’impresa deve attaccarsi in petto per essere conforme alla legge, ma è il riconoscimento della scelta manageriale di trattare la legalità come un vantaggio competitivo da difendere attraverso sistemi di gestione del rischio come quelli cui rinvia l’art. 6 del Decreto Legislativo 231/2001.
Le aziende calabresi non si facciano trovare impreparate – Al contrario di quello che si potrebbe superficialmente immaginare, anche nelle Regioni meridionali ed in Calabria ci sono imprese la cui domanda di legalità è forte e che sono pronte a investirvi tempo e risorse.
Se c’è un’area del Paese dove fare business in modo etico e nel pieno rispetto della legalità è davvero una “impresa” meritevole di massimo sostegno ed appoggio da parte di tutte le Istituzioni, dove l’esigenza di far emergere le esperienze positive e virtuose è più impellente, dove è vitale distinguere le aziende marce da quelle sane e rendere disponibili a queste ultime dei canali preferenziali per l’accesso alle risorse finanziarie, quella è certamente il Meridione d’Italia poiché i luoghi in cui la criminalità organizzata di tipo mafioso ha avuto origine sono anche quelli in cui essa esercita il maggior ostacolo alla crescita ed il più penetrante controllo sociale.
Con il giusto sostegno da parte di tutti gli attori istituzionali e con le necessarie riforme normative, il Rating di Legalità potrebbe davvero costituire per le aziende che operano in queste aree un vantaggio competitivo da contrapporre alla sleale concorrenza delle aziende illegali ed un mezzo con cui cercare di colmare il gap che le separa dalle aziende del resto d’Italia e d’Europa.
Per questi motivi si ritiene importante diffondere la conoscenza di tali argomenti tra gli imprenditori e gli amministratori del Sud, affinché sappiano coglierne le opportunità, superando la comprensibile sfiducia maturata in anni di pressoché completo abbandono che rischia di accentuare ancora la distanza dalle controparti più avanzate.