La lettura del testo di Carmelo Petraglia e Stefano Prezioso fa riemergere la complessità dell’analisi di un problema economico; perché si riconosce che esso non prescinde dalla storia, anche solo prossima, e inoltre si rimuove l’ipotesi, spesso frequente e implicita, di un fenomeno autonomo, il cui verificarsi, quindi, spesso si assume indipendente da altri accadimenti, soprattutto se formalmente distanti, sia in termini geografici, sia per la loro espressa natura. Inoltre, di un problema, sarebbe bene individuarne le cause e solo dopo esaminarne anche gli effetti dello stesso. Negli autori è implicito che tutto ciò è condizione necessaria per l’individuazione delle azioni attraverso le quali indirizzare una possibile soluzione di quella che una volta veniva definita la “questione meridionale”.
Nel libro si esamina, appunto, il problema del rapporto Nord-Sud con uno sguardo particolare all’epoca recente compresa tra la nascita della nuova moneta e l’improvviso scoppio della drammatica pandemia mondiale. Aspetti che occorre conoscere anche per individuare “come tornare a crescere riducendo le diseguaglianze”. Insomma, si deve cercare la soluzione, non continuare a considerare solo l’esistenza del problema.
Come dicevamo, ciò non può prescindere dalla storia, perché è necessario osservare la dinamica economica del Paese, a partire dalla drammatica situazione presente nell’immediato secondo dopoguerra. Nell’efficace sintesi, gli autori ricordano del “grande balzo” dell’economia italiana e parallelamente dell’importante contributo del Mezzogiorno. Pur non escludendo gli aspetti dell’allocazione del fattore lavoro (soprattutto attraverso l’emigrazione), si sottolinea la centralità sia degli investimenti pubblici, sia dell’espansione dell’industria. Strumenti di politica economica non certo estranei alla strategia della Cassa del Mezzogiorno e alle scelte allocative delle partecipazioni statali (PPSS). Al di là degli accadimenti legati alle comprensibili umane emozioni, l’emigrazione ha certamente “aumentato le possibilità di impiego di chi restava” e inoltre ha migliorato le condizioni di efficienza del fattore lavoro nel settore agricoltura e consentito l’allocazione desiderata del fattore lavoro nell’industria collocata al Nord. Una emigrazione che ha rappresentato quindi una, pur parziale, “soluzione naturale” del “dualismo”.
Guardando al passato, l’osservazione degli autori è che la consapevolezza dei policy maker di una positiva interdipendenza tra Nord e Sud abbia condotto a una crescita economica generale del Paese e anche a una dinamica tendente al riequilibrio territoriale, economico e sociale. Questo positivo effetto è andato riducendosi progressivamente, anche per il ruolo sempre più incisivo delle nascenti Regioni, conducendo allo smarrimento della “vocazione unitaria delle origini” delle politiche orientate allo sviluppo (anche) del Sud. Osservazione che sarebbe opportuno richiamare oggi nel dibattito sull’autonomia regionale. Tralasciando, a causa del giusto obbligo di sintesi, gli interessanti richiami alle funzioni svolte da istituzioni fondate per lo sviluppo del Sud, quel che vien ricordato nel libro sono la fine del golden age (per usare la terminologia di Crafts) intesa come negativo effetto, sull’industria, prodotto dallo shock petrolifero e di altri successivi mutamenti dei sistemi economici, e l’inizio della “degenerazione delle politiche”. Nel lungo periodo che inizia nel 1973 è possibile osservare problemi di valenza internazionale che hanno riguardato sia i processi di reindustrializzazione nei paesi a economia avanzata, sia la nascita di nuove imprese diffuse nei paesi definiti NIC. Il settore industriale italiano intendeva essere presente nell’ampio mercato internazionale, attraverso l’innovazione tecnologica che sostituendosi al fattore lavoro creava una disoccupazione, parzialmente frenata da una dinamica del pubblico impiego volto a trasformarsi in “datore di lavoro di ultima istanza”. In questo nuovo contesto, tra l’altro internazionale, le politiche di sviluppo del Mezzogiorno non hanno riguardato l’incentivo a investire, quanto a utilizzare una politica fiscale tendente a ridurre gli oneri sociali e contributivi componenti del costo del lavoro. L’intervento straordinario per lo sviluppo del Mezzogiorno, diviene sempre più inefficace, anche a causa del ruolo effettivo di poteri locali, che hanno fatto spesso un uso clientelare della spesa pubblica. Col tempo, l’economia settentrionale diviene “postindustriale” e quindi si trasforma in terziaria lasciando sostanzialmente invariato il gap che persiste, anche per un utilizzo inefficiente della spesa pubblica nel Mezzogiorno che spinge nuovi politici del Nord a proclamare l’esistenza di una “questione settentrionale”. A tal proposito i due autori ricordano la riflessione di Augusto Graziani, riguardante la reazione dell’industria italiana che avrebbe condotto all’arretramento dei redditi da lavoro e a una maggiore iniquità a sfavore del Mezzogiorno.
Con il nuovo millennio emergono nuovi problemi connessi alla nascita dell’euro, alla crescente globalizzazione e alla insufficiente innovazione. Molto in sintesi, la nuova moneta non ha più consentito la strategia italiana delle svalutazioni monetarie esterne, mentre il mercato competitivo si è molto esteso in ambito internazionale; con economie “dal basso” che divengono nostre concorrenti attraverso i prezzi ed economie “dall’alto” concorrenti con la loro innovazione tecnologica. I due autori correttamente osservano che non è stato, certo, solo il Mezzogiorno a pesare sulla mancata crescita dell’economia nazionale. In particolare si è assistito a un doppio scivolamento; uno del nostro Sud nel confronto con le aree emergenti dell’Est della UE, l’altro relativo al mutato rapporto del Nord Italia con le aree europee maggiormente dinamiche, nella concorrenza globale, e, soprattutto, nell’ innovazione tecnologica. Gli autori descrivono le diverse “colpe” del sistema industriale italiano che ha teso, come Don Abbondio, a situarsi in un “vaso di coccio”, circondato dai più forti vasi che abbiamo appena citato. Un vaso fragile, quello dell’industria, sia perché composto da una ridotta dimensione media delle imprese, sia per il mancato irrobustimento dovuto a una politica fiscale che non ha operato per la stabilizzazione e quindi, nel più lungo periodo, non capace di stimolare lo sviluppo economico; una politica fiscale di certo non estranea agli indirizzi teorici della UE, ispirati dalla “economia sociale di mercato”. Una finanza pubblica non stabilizzante ma anche non equa e non efficiente sul piano allocativo. Nel libro questo ruolo dell’intervento pubblico viene descritto, soprattutto con riferimento all’effetto sul divario Nord-Sud, ricordandone la sua inefficacia in risposta alla crisi scoppiata tra il 2007 e il 2008. In sostanza, da un lato si accettano i richiami, da pare del “settentrione”, sull’ingiustizia, attraverso una lettura distorta del significato dei residui fiscale e dall’altro, sostanzialmente, si lascia alla politica di coesione europea lo stimolo per lo sviluppo economico delle zone depresse. Queste politiche hanno incentivato il diffondersi della “lunga crisi” in Europa, con intensità maggiore nel sud del vecchio continente. Due aspetti rilevanti sono considerati dagli autori, la durata e gli effetti della crisi in Italia. Questi sono tra loro connessi e riguardano, sostanzialmente, l’impostazione neoliberista (o forse, più specificatamente, riteniamo, la suddetta “economia sociale di mercato” come sancita nel Trattato di Lisbona) e l’assenza di una unione fiscale. Sono questi gli elementi che spingono le scelte del policy maker verso la riduzione dei disavanzi pubblici, fedeli alla leggenda della “austerità espansiva”. Questa “lunga crisi” genera effetti negativi, con un diverso impatto territoriale tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Su questo aspetto, nel libro si descrivono le diverse dinamiche economiche che hanno finito col condurre a un più accentuato dualismo, dovuto anche alla funzione della “distruzione creatrice” seguita dall’industria che opera nel Nord, ma meno da quella del Sud che invece rimane in una condizione stagnante sul piano dell’innovazione shumpeteriana. Un testo che riesce a richiamare concetti e formule verbali come quella appena accennata chiamata anche “burrasca di Schumpeter” (1942) e che, inoltre, non ha tralasciato il contributo di Gunnar Myrdal (1957), citato con riferimento alle eventuali capacità di adattamento agli accadimenti economici esterni al proprio territorio. Poco più oltre, gli autori non dimenticheranno anche di citare Graziani che a proposito della crisi del mercato del lavoro, ricorda che esso “è lo specchio della struttura economica”. In generale, dalla lettura del libro è possibile osservare che, a differenza delle tendenze attuali, gli autori non tralasciano l’importanza di una letteratura economica passata, che oggi viene spesso dimenticata; si pensi, ad esempio, all’analisi della grande trasformazione svolta da Polanyi (1944) o anche a Hirschman(n) (1970) con la sua idea del mutare dei comportamenti dei soggetti economici, passando dalla lealtà alla protesta. Questi riferimenti appaiono estremamente calzanti, quando si osserva il “regionalismo all’italiana”, prova che “che il nostro paese non ha colto le occasioni di avanzamento economico e sociale delle grandi transazioni globali”.
La crisi economica e i divari regionali si accentuano quando arriva una nuova crisi globale dovuta alla pandemia da COVID-19. Nel libro si racconta delle criticità che hanno inciso globalmente e che hanno contribuito a rendere ancora più evidenti, esplicite e gravi, le diseguaglianze nel nostro paese, come per esempio lo stato iniziale dei sistemi sanitari diventati regionali. Gli autori ricordano che l’UE non ha potuto fare altro che prendere in considerazione l’entità della crisi e la necessità di individuare azioni volte al superamento e all’uscita dalla crisi stessa. In particolare l’UE ha deciso di concedere una maggiore libertà di azione ai singoli paesi, di contribuire finanziariamente su alcune misure decise a livello europeo e di lanciare il Next Generation EU con l’obiettivo della ripresa economica e sociale dopo il dramma della pandemia. Nel libro gli autori descrivono efficacemente le azioni suddette, sia guardando agli obiettivi, sia analizzando i primi risultati, seppur parziali, ottenuti dalla risposta italiana. Anche il PNRR viene efficacemente descritto e, coerentemente con l’idea generale del libro, gli autori si chiedono se sarà questo lo strumento grazie al quale colmare i divari esistenti nel “dualismo” italiano. Le critiche all’impostazione data dalla Commissione europea non mancano, anche se il PNRR “non è un semplice programma di spesa”, come di fatto lo è quello della politica di coesione. Tra le critiche, riferendoci alla ripartizione territoriale del Piano, si osserva che la quota Sud del 40% viene stabilita sull’importo complessivo, invece che sulle singole misure, e per quanto riguarda i progetti si individuano anche quelli per i quali si era, antecedentemente, previsto un diverso finanziamento. Anche in questo caso gli autori mettono al centro la corretta osservazione che la crescita economica ha bisogno anche della riduzione delle diseguaglianze.
Concludendo, come abbiamo avuto modo di osservare, il testo ha il merito di sintetizzare in maniera efficace, ma rigorosa la storia recente del divario Nord-Sud con le relative trasformazioni sul piano delle scelte di politica economica. La lettura appare ricca di spunti e di riferimenti teorici oggi spesso dimenticati e che sarebbe opportuno rimettere nella cassetta degli attrezzi degli economisti e dei policy maker. La scelta di una scrittura semplice e descrittiva aiuta una lettura scorrevole da parte dei “non addetti ai lavori”; inoltre, l’inserimento nel testo di riquadri di approfondimento ha il pregio di consentire al lettore più esigente sul piano analitico e formale un adeguato inquadramento dei temi trattati.
Recensione a cura di Amedeo Di Maio e Salvatore Ercolano del libro:
Petraglia C., Prezioso S., Nord e Sud. Divari economici e politiche pubbliche dall’euro alla pandemia. Carocci editore, Roma, 2023.