Ricambio generazionale, formazione e merito. Così dovrebbe cambiare la PA

«Il Capitale Umano» non è solo il titolo del bel film di Virzì che, qualche anno fa, ha tracciato un lucido e spietato ritratto della provincia del Nord Italia. È anche l’espressione comunemente usata dagli economisti per riferirsi alla «qualità del lavoro». Un’espressione che si riferisce, come si può intuire, alle competenze e al grado d’istruzione dei lavoratori: fattori decisivi per la crescita delle economie avanzate, dati i ritmi del cambiamento tecnologico e le sfide della competizione globale. Investire in istruzione e competenze conviene sia per i singoli, sia per la collettività. L’investimento in istruzione si traduce, infatti, in salari più alti per i singoli lavoratori e in maggiori tassi di crescita per le economie. Ma, si badi bene, tra offerta di capitale umano e crescita non c’è uno stretto automatismo. Perché le competenze si traducano in punti di crescita del Pil è necessario che il capitale umano venga utilizzato, cosa che non sempre accade nella misura che sarebbe auspicabile. Si pensi all’Italia. Si sente spesso dire che il declino italiano abbia, tra le sue principali cause, la carenza di lavoratori con elevate competenze. Un’argomentazione contraddetta, però, dal fatto che sono migliaia i giovani ad elevata qualificazione che emigrano, trovando all’estero quegli sbocchi occupazionali che mancano nel nostro paese.

Nonostante queste complicazioni, l’idea che ci sia una stretta relazione tra investimento in capitale umano e crescita è centrale nelle argomentazioni di molti economisti se riferita alla sfera privata della produzione e della fornitura dei servizi, cioè al mondo delle imprese.

Ma se la qualità del lavoro è così importante per le imprese, perché non dovrebbe esserlo anche per la Pubblica Amministrazione? La PA non richiede forse personale competente e qualificato, in grado di offrire, con efficienza, servizi ai cittadini e alle imprese?

Porsi questi interrogativi è necessario perché, dopo anni di blocco del turn over, dal 2020 al 2022 in Italia saranno assunti 450 mila dipendenti pubblici. È un’occasione da non perdere per innalzare il livello della qualità del lavoro nel settore pubblico, adeguando le competenze dei dipendenti pubblici alle richieste del settore privato che spesso, e a ragione, lamenta inefficienze e ritardi. Da anni ormai, la PA, ai diversi livelli di governo, si ritrova a dover assicurare maggiori servizi e di migliore qualità, con risorse umane e finanziarie sempre più scarse. Nei prossimi anni sarà, dunque, possibile migliorare gli standard dei servizi pubblici attraverso l’immissione di personale, di conoscenze e di tecnologie. Perché lo sblocco del turn over contribuisca all’innalzamento della qualità del lavoro nella PA sarà opportuno intervenire almeno in tre ambiti.

La prima area d’intervento riguarda l’immissione di personale. Sarebbe utile un piano di assunzione di giovani tecnici competenti, per alimentare un ricambio generazionale «intelligente» nella PA. Ciò anche in considerazione del fatto che gli impiegati pubblici italiani sono quelli con l’età media più elevata tra tutti i paesi dell’OCSE (Figura 1). L’immissione di tecnici fronteggerebbe quella carenza di progettualità, che si riflette negativamente nell’attuazione della spesa per investimenti pubblici e che si riscontra particolarmente nelle amministrazioni locali, dove non sono tanto le idee a mancare, quanto le competenze tecniche perché quelle idee diventino progetti e occasioni di lavoro.

Figura 1: Distribuzione percentuale degli occupati nel settore pubblico (amministrazioni centrali) per fascia d’età, 2015

OECD (2017), “Share of people employed in the central government by age group, 2015”, in Public Employment and Pay, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/gov_glance-2017-graph48-en.

La seconda area d’intervento riguarda l’immissione di competenze e nuove tecnologie. Si tratterebbe d‘investire nella formazione dei dipendenti pubblici per adeguarne le competenze alle esigenze di cittadini e imprese. Nelle amministrazioni pubbliche si fa sempre meno formazione. È un trend che va invertito. Nel 2008 la media di giornate di formazione per ciascun dipendente era di 1,4 all’anno; nel 2016 il dato è sceso a 0,9. Si tratta, cioè, di 6/7 ore di formazione annue per ciascun lavoratore pubblico. Le competenze andrebbero poi aggiornate per estendere, in tutti i settori, l’applicazione delle tecnologie più avanzate.

Infine, la terza area d’intervento riguarderebbe gli assetti organizzativi. Le competenze dell’alta dirigenza andrebbero maggiormente valorizzate, sburocratizzando i processi decisionali dei vertici, introducendo maggiore discrezionalità nelle scelte. Un processo che andrebbe accompagnato con sistemi di controllo, valutazione e premialità delle scelte da attuarsi non a monte, come avviene troppo spesso oggi, ma a valle, sulla base dei risultati ottenuti da misurare in termini di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

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