Gli ultimi dati sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, diffusi nei giorni scorsi dall’Istat, mostrano una differenza media di oltre 8 mila euro tra Centro-Nord e Mezzogiorno. La forbice nelle retribuzioni si è allargata di ben 1.700 euro rispetto al 2009. Queste cifre, che confermano come le differenze tra Nord e Sud siano aumentate per effetto della grave crisi attraversata dal Paese, stimolano una riflessione sulle proposte per lo sviluppo del Mezzogiorno avanzate in questi anni. Una riflessione che crediamo utile nell’attuale fase, in cui si avvia il programma di un Governo che, pur avendo condiviso un contratto nel quale, si legge, non sono previste “specifiche misure con il marchio Mezzogiorno”, ha, tuttavia, una Sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega al Sud e una Ministra per il Sud.
Tra le proposte che, negli ultimi anni, più hanno fatto discutere c’è quella di differenziare i salari tra Nord e Sud per allinearli ai rispettivi livelli di produttività del lavoro. Il presupposto di tale proposta è che tra le due aree esistano ampie differenze nei prezzi e nella produttività, mentre le retribuzioni sarebbero uguali, perché fissate con la contrattazione nazionale. Come risultato, al Sud i salari risulterebbero “troppo alti” rispetto alla produttività e ciò causerebbe disoccupazione. I disoccupati meridionali tenderebbero, poi, a non emigrare al Nord, dove percepirebbero un salario analogo a quello del Sud, ma a fronte di un costo della vita assai più alto. L’implicazione politica è che, per rimuovere alla radice il divario Nord-Sud, sarebbe necessario abbandonare la contrattazione nazionale a favore di quella decentralizzata, per consentire ai salari di adeguarsi (al ribasso) ai livelli più contenuti di produttività del meridione.
I presupposti della proposta non appaiono, però, confermati dai dati. Nelle regioni meridionali, la produttività media del lavoro è sì inferiore rispetto al Nord, ma lo sono anche le retribuzioni. Alcuni esempi possono essere utili. Nel Mezzogiorno il valore aggiunto per dipendente nell’industria è del 27% più basso di quello del Nord-ovest, ma anche le retribuzioni sono proporzionalmente più basse. Anche nel settore dei servizi, il divario nella produttività tra le due aree è sostanzialmente in linea con quello nelle retribuzioni. In altre parole, i salari medi al Sud sono inferiori che al Nord e sostanzialmente in linea con la produttività del lavoro e con i prezzi. Dunque, la proposta di abbandonare la contrattazione collettiva del lavoro, per favorire un riallineamento (al ribasso) dei salari nelle regioni meridionali non trova conferma nei dati sulle retribuzioni. E non la trova neanche in quelli sull’emigrazione. Tra il 2002 e il 2016, oltre 783mila meridionali sono emigrati: mezzo milione i giovani, oltre 200mila i laureati. Se la proposta di differenziare i salari ha così fragili basi, per quali motivi ha avuto così ampio risalto nel dibattito pubblico? Una risposta potrebbe essere che essa è in linea con quel percorso di riforme che, con l’obiettivo di sostenere occupazione e crescita, hanno progressivamente ridotto tutele e garanzie dei lavoratori. I risultati sociali ed economici di tale strategia riformatrice sono evidenti. Esistono fondate ragioni per pensare che la riduzione dei salari non accrescerebbe investimenti e occupazione, ma impoverirebbe ulteriormente il Mezzogiorno e il Paese.
Questo contributo è stato pubblicato su Il Mattino (Edizione del 19 Giugno 2018)
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