Servizi pubblici, presenza asfissiante

Le due interpretazioni estreme per spiegare l’elevata quota dei servizi nell’economia calabrese sono le seguenti. Da un lato, la tradizionale teoria degli stadi di sviluppo fa leva sul fatto che la domanda di servizi è anelastica rispetto al reddito. Ciò implica che il peso del settore terziario aumenta all’aumentare del livello di sviluppo. Dall’altro lato, le dinamiche del settore non sono strettamente legate alla domanda, bensì alla circostanza che i servizi (in particolare quelli non destinati alla vendita) svolgono la funzione di assorbire manodopera, altrimenti non occupata. E’ interessante capire sia le dinamiche in atto nell’economia calabrese in termini di composizione settoriale della ricchezza regionale sia le implicazioni che ne derivano sulla sostenibilità del sottostante modello di sviluppo.

L’analisi dei dati

Il settore dei servizi

In Calabria la ripartizione del valore aggiunto regionale per macro-settori indica che una quota largamente maggioritaria è assorbita dai servizi (pubblici e privati). Nel biennio 2013-2014 questa quota è di poco superiore all’80% (Figura 1). Dal 1980 al 2014 si osservano tre diverse dinamiche: il peso relativo dei servizi è cresciuto in modo sostenuto negli anni ’80, passando dal 72% del biennio 1980-81 all’80% del periodo 1990-91. Nel periodo 1992-2004 si è registrato un andamento stazionario attorno ad una media dell’82%. L’ultimo decennio è stato di ulteriore terziarizzazione dell’economia regionale. L’elevata prevalenza del terzo settore nell’economia non è, tuttavia, una prerogativa della Calabria. La specificità è che il suo peso è più elevato del 4%/5% di quello che si osserva nelle altre regioni meridionali e dell’8%/9% rispetto alla media nazionale (Figura 1). E’ anche interessante rilevare che il differenziale tra aree geografiche non è cambiato (in media) nel corso del tempo. La terziarizzazione è comune anche in molti altri paesi: i dati della Banca Mondiale (http://data.worldbank.org/indicator/NV.SRV.TETC.ZS) segnalano che nel triennio 2012-2014 i servizi assorbono quote elevate del PIL nazionale in Germania (68%), Giappone (72%), Inghilterra (79%), Olanda (70%), Stati Uniti d’Ameria (78%), Svezia (73%) e Svizzera (74%).

 Gli altri settori

Il significato incremento dei servizi ha (necessariamente) indotto una trasformazione nella composizione settoriale del valore aggiunto regionale. Le Figure 2-4 evidenziano le tendenze in atto nel periodo 1980-2014, alcune meno note di altre. Rispetto al resto del paese, la Calabria si caratterizza e la sua maggiore vocazione produttiva nel settore agricolo: a fine periodo la quota settoriale ammonta a circa il 5.1%, ossia due punti percentuali in più del peso relativo che nel biennio 2013-14 l’agricoltura ha nel Mezzogiorno e in Italia. Osservando l’intero periodo si osserva che l’economia calabrese è diventata relativamente “più agricola” a partire dalla metà degli anni novanta, quando nel 2004 il settore contribuiva alla formazione del VA regionale con un picco del 6.2%. Negli anni successivi alla crisi del 2007-2008, la quota del VA del settore primario si è stabilizzata attorno al 5%. L’analisi della serie storica indica, peraltro, la presenza di alcune  trasformazioni che si sono verificate nel corso del tempo (Figura 2). Fino alla metà degli anni duemila, la quota del settore mostrava regolari oscillazioni annuali, legate, evidentemente, alla diffusa presenza di colture a cicli produttivi biennale, mentre negli ultimi 10 anni l’ andamento è diventato più morbido, sebbene ancora più variabile di quello che si evidenzia per il Mezzogiorno e l’Italia. Da questi dati si può dedurre che all’interno del settore agricolo calabrese sono in atto dei cambiamenti strutturali che mirano anche alla diversificazione produttiva con un tendenziale aumento del peso relativo delle produzioni a ciclo annuale.

L’industria pesa poco: dal 1980 al 2014 la quota del VA industriale si è attestata attorno alla media dell’8,7%, che è un valore significativamente inferiore alla media del Mezzogiorno (13,8%) e dell’Italia (20,4%). Dopo una fase di moderata espansione osservata a partire dal 1990 – il picco si è registrato nel 2005, quando l’industria assorbiva il 9,9% del VA regionale –  l’industria ha subito gli effetti della crisi. A fine periodo, la quota del VA industriale è di poco inferiore all’8%. Il confronto dei dati tra aree geografiche consente di evidenziare una particolarità dell’economia calabrese, ovvero che l’industria ha registrato un incremento della sua importanza relativa nel periodo a cavallo della fine degli anni novanta e l’inizio del successivo decennio. La specificità è che nello stesso periodo nel Mezzogiorno e in Italia, la quota dell’industria sul VA è diminuita.

Figura 1 Incidenza del settore dei servizi (pubblici e privati) sul Valore aggiunto. Dati Prometeia, 1980-2014.

Figura 2 Andamento delle quote settoriali sul VA in Calabria (servizi esclusi). Dati Prometeia, 1980-2014.

Figura 3 Andamento delle quote settoriali sul VA del Mezzogiorno (servizi esclusi). Dati Prometeia, 1980-2014.

Figura 4 Andamento delle quote settoriali sul VA in Italia (servizi esclusi). Dati Prometeia, 1980-2014.

Di particolare interesse è la dinamica del VA settoriale delle costruzioni. In Calabria questo settore ha registrato una regolare riduzione della propria quota sul VA, passando dal 12,2% del biennio 1980-81 al 4,1% di fine periodo (2013-2014). In 35 anni il settore ha perso più di 8 punti percentuali di quota sul VA, trasformandosi, a fine periodo, nel macro-settore di dimensioni più ridotte rispetto agli altri, quando, al contrario, ad inizio periodo, era preceduto solo dai servizi e contava più dell’industria e dell’agricoltura. Approfondimenti basati su dati disaggregati per tipologia di attività economica, mostrerebbero come il ridimensionamento delle costruzioni sia legato alla tendenziale riduzione degli investimenti in opere pubbliche e alle dinamiche di lungo periodo osservate nel settore dell’edilizia residenziale. Nel confronto con le altre regioni, l’andamento della quota settoriale delle costruzioni della Calabria è simile a quello osservato per il Mezzogiorno, mentre in Italia il settore non ha subito significative oscillazioni, posizionandosi sempre a valle dei servizi e dell’industria.

Discussione

La terziarizzazione è in generale il risultato del processo di crescita di un’economia, in cui il settore primario e l’industria tendono a contribuire sempre di meno nella formazione del PIL. Pertanto i dati appena presentati indurrebbero a pensare che la Calabria è da tempo entrata nella fase di maturità e di spinta crescita legata ai servizi. La precedete analisi ha anche indicato che le il sistema regionale non è mai stato interessato da una diffusa industrializzazione (Figura 2). Questi due fenomeni – elevata presenza di terziario e persistente assenza di industria – sono, tuttavia, il risultato della cosiddetta “de-industrializzazione senza industrializzazione”. In altre parole, la terziarizzazione dell’economia calabrese non risponde alle logiche di crescita bilanciata tra settori in cui le transizioni da un equilibrio ad un altro sono determinate dalla domanda di servizi e dall’andamento della produttività relativa tra settori, bensì riflette l’arretratezza di un sistema economico che considera il terziario come strumento per creare occupazione.

Ponendo pari a cento il valore aggiunto dei servizi, i dati disaggregati per tipologia di attività economica indicano che nel 2011, in Calabria le attività commerciali assorbono il 25,2% del totale settoriale, i servizi finanziari il 24%, mentre il 33% è generato dai servizi pubblici (per esempio, difesa, assicurazione sociale obbligatoria, istruzione, sanità e assistenza sociale) (Fonte: Banca d’Italia, L’economia della Calabria, 2015, Tavola A2). Si tratta dell’esito del modello di sviluppo basato sulla dipendenza in cui le attività commerciali veicolano beni e servizi per soddisfare la domanda locale di beni prodotti altrove, e in cui la pubblica amministrazione alimenta i redditi individuali svolgendo funzioni sociali di attrattore di manodopera in una misura non compatibile con la dimensione della domanda regionale di servizi. In sintesi, l’anomalia del caso Calabrese è che la terziarizzazione non è legata al diffuso sviluppo di attività di servizi avanzati per le imprese e non è stata interessata dalla crescita di produttività che il settore dei servizi destinati alla vendita ha osservato negli ultimi vent’anni. La questione, quindi, non è il livello di terziarizzazione, ma il modello di sviluppo che lo ha determinato e la tipologia di terziario su cui la regione oggi può far leva.

Implicazioni

Da un punto di vista finanziario, il modello di riferimento ha funzionato per decenni grazie a particolari condizioni macroeconomiche favorevoli – ossia politiche fiscali “permissive”– che hanno alimentato la dimensione della pubblica amministrazione ben oltre le soglie suggerite da qualsiasi principio di economicità e funzionalità. Oggi, molti segmenti dell’offerta regionale di servizi pubblici sono a bassa produttività, alcuni sono sovradimensionati rispetto agli organici potenziali, mentre alcuni, paradossalmente, soffrono di carenze di risorse. L’aspetto singolare  è che le rigidità contrattuali e la bassa mobilità funzionale impediscono alla pubblica amministrazione di avviare qualsiasi forma di riequilibro settoriale. La beffa è che questi motivi – assieme a molte altre specificità interne ed esterne al settore – vincolano l’operatività della pubblica amministrazione con il risultato che alcuni servizi non vengono offerti, mentre molti altri sono di bassa e dubbia qualità. Inoltre, quel modello ha reso asfissiante la presenza della pubblica amministrazione non sono in termini dimensionali, ma soprattutto perché ha distorto gli incentivi degli individui a trovare occupazione in settori diversi dal terziario pubblico. Sebbene quel modello non sia più sostenibile (è inimmaginabile che cresca come in passato) l’eredità che ha lasciato coinvolge, purtroppo, dimensioni culturali sulle attitudini al rischio di intere generazioni che per decenni hanno aspirato alla sicurezza reddituale di un’occupazione nella pubblica amministrazione.

Questo scenario rende molto difficile la ripartenza, poiché l’economia privata è soffocata – per dimensione e inefficienza – dalla pubblica amministrazione. Le linee di azione possono essere suddivise in almeno due livelli di interventi.

È banale dire che occorrerebbe dotarsi di un sistema di regole che aiuti il settore pubblico ad offrire servizi di qualità. Il problema è come procedere. Nei segmenti del settore che non fanno parte dell’architettura istituzionale dei ministeri, la Regione Calabria, ossia l’attuale Giunta Oliverio, dovrebbe ingegnarsi per garantire un “normale” funzionamento di tutti gli enti ad essa collegati. Con un piano di azione orientato al recupero di produttività istituzionale che sanzioni chi si disallinea dagli obiettivi prefissati. Per stanare le sacche di inefficienza che condizionano la stragrande maggioranza degli enti regionali. E’ un percorso difficile, ma non impossibile da attuare. Sebbene la tecnocrazia regionale mostri resistenze a qualsiasi ipotesi di razionalizzazione delle strutture, la questione cruciale è, tuttavia, legata alla volontà politica e alla capacità istituzionale di imprimere un’accelerazione nell’introduzione di radicali innovazioni organizzative in tutte le strutture regionali e in tutti i settori di competenza regionale. È ragionevole pensare che questa debba essere una delle priorità dell’attuale Giunta Oliverio: ripartire dai servizi, piuttosto che “ripartire dall’industria” dovrebbe essere il principio guida delle azioni di questa legislatura. Finora si è fatto ben poco, considerato il fatto che l’aspettativa collettiva è di considerare utile solo una rivoluzione di approccio e di metodo dei processi decisionali della pubblica amministrazione che fa capo alla Regione Calabria.

Meno banale è capire cosa fare sul versante del sistema delle imprese.  Una prima difficoltà è legata alle precedenti argomentazioni: è poco credibile l’attuazione di qualsiasi processo di sviluppo dell’economia privata in presenza di una macchina amministrativa che, quando cammina, lo fa a rilento creando distorsioni. Su questi aspetti è impossibile approfondire in questa sede, ma è indubbio che il lavorio appena avviato da OpenCalabria.com ha come obiettivo quello di proporre soluzioni a favore di un’economia che idealmente deve fare un “salto all’indietro” nel suo percorso di crescita, ricominciando a tessere la tela dell’industrializzazione all’interno di un sistema denso di pubblica amministrazione. A questo si aggiunge che il contesto soffre di attenzioni da parte del governo centrale in termini di assenza di interventi trasversali finalizzati a promuove un ambiente favorevole alla crescita.  Tuttavia, questo salto, inusuale nei processi di sviluppo, assegna al sistema delle imprese calabresi il vantaggio di arrivare dopo, ossia di conoscere gli effetti di specifiche scelte industriali effettuate in passato in aree simili alla Calabria e con la consapevolezza che, oggi, la competitività è legata più alla differenziazione e alla qualità dei beni, piuttosto che al prezzo. Più alle produzioni di nicchia, che a quelle di massa. Si tratta di un vantaggio di conoscenza che le imprese e i policy makers devono valorizzare e non disperdere adottando scelte avulse dalle specializzazioni del territorio e dalle tendenze dei mercati.

Sembra ragionevole concludere questa nota sottolineando la necessità di introdurre nell’azione del governo regionale una vera rottura rispetto al passato. L’urgenza della Giunta Oliverio è di assicurarsi, in via prioritaria,  il buon funzionamento del vasto segmento di burocrazia che controlla. Solo quando questo processo sarà ad avanzato stato di realizzazione, l’annuncio di “ripartire dall’industria”  potrà essere considerato credibile.

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