Una fiscalità di vantaggio a costo zero per la piena occupazione nelle regioni del Mezzogiorno

Cosa fare nella fase post Covid-19

1. Introduzione  Da alcuni mesi il tema di una “fiscalità di vantaggio” sembra essere tornato alla ribalta fra le politiche da perseguire per stimolare la crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. In una intervista su Repubblica del 26 luglio 2020, Fabio Panetta, componente del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, a proposito dell’utilizzo delle risorse che il Recovery fund ha riservato all’Italia, ha sollecitato il governo italiano a cogliere l’opportunità di utilizzare i fondi europei per modernizzare l’economia,  rendendola più rispettosa dell’ambiente, più digitale, più inclusiva,  attenuando le diseguaglianze con la crescita e il lavoro. Ha poi messo in evidenza come una sfida cruciale sia quella del Mezzogiorno, una economia in cui un terzo della popolazione ha un reddito pro-capite pari alla metà di quello del resto del paese e intere regioni sono afflitte da disoccupazione diffusa e carenza di infrastrutture.  A proposito della possibilità di introdurre  una fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno, il dr. Panetta ha affermato che  si tratta di un obiettivo ambizioso, su cui in passato ha riflettuto con i colleghi della Banca d’Italia. “Un obiettivo da  valutare in ambito sia nazionale sia europeo per le sue implicazioni sulla finanza pubblica e sulla concorrenza[1], che può essere di importanza fondamentale per rilanciare l’economia del Mezzogiorno”. Dichiarazioni a sostegno della fiscalità di vantaggio per le regioni del Mezzogiorno sono state rilasciate  dai principali esponenti del  Governo italiano[2], e alcune misure sono state introdotte nel decreto legge del 14 agosto 2020. Si ha, però, l’impressione che, per le modalità secondo cui essa sembra essere prefigurata nel decreto legge del 14 agosto e le dichiarazioni dei principali esponenti del Governo italiano (riduzione del corso del lavoro di circa il 10 per cento fra il 2021 e il 2025 e poi gradualmente decrescente fino ad annullarsi entro il 2030), difficilmente essa potrebbe avere un impatto significativo sulla crescita dell’occupazione e del reddito nelle regioni del Mezzogiorno. Per una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nel Mezzogiorno le produzioni a mercato internazionale dovrebbero poter contare su una riduzione del costo del lavoro dell’ordine del 40 per cento garantita per almeno 20 anni. Per evitare che essa abbia un costo eccessivamente elevato per la finanza pubblica essa dovrebbe essere allora drasticamente selettiva; il decreto legge del 14 agosto sembra, invece, prefigurare una fiscalità di vantaggio sostanzialmente “a pioggia”, che comporterebbe una riduzione del tutto insufficiente del costo del lavoro e con un orizzonte temporale troppo breve.

 2.La fiscalità di vantaggio prevista dal decreto legge del 14 agosto 2020.  L’articolo 27 del decreto legge 14 agosto 2020 n. 104 prevede che, previa autorizzazione  della  Commissione  europea, al fine di  contenere gli effetti  straordinari  sull’occupazione determinati dall’epidemia da COVID-19 in aree caratterizzate da gravi situazioni di disagio socio-economico e tutelare i livelli occupazionali,  dal 1° ottobre al 31 dicembre 2020,  sia riconosciuta ai datori di lavoro  privati,  con  esclusione del  settore  agricolo  e  del  lavoro  domestico,  per i dipendenti  la cui sede di lavoro è situata in regioni con un prodotto interno lordo pro capite inferiore al 90 per cento  della media EU27 e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale, un  esonero pari al 30 per  cento  dei  contributi previdenziali,  con  esclusione  di quelli  spettanti   all’INAIL, con un onere complessivo per la finanza pubblica pari a circa 1,5 miliardi di euro.  Secondo la relazione tecnica della Ragioneria generale dello Stato questa agevolazione contributiva  verrebbe applicata a poco più di tre milioni di  lavoratori, con un monte retributivo mensile pari a poco meno di cinque miliardi di euro. La decontribuzione equivarrebbe quindi in media a circa il 10 per cento della retribuzione, e, in termini assoluti a circa 170 euro mensili per lavoratore.  Per ogni cento abitanti, i  lavoratori beneficiari della decontribuzione sarebbero  circa 10 in Calabria, 12 in Sicilia, 14 in Molise, 15 in Sardegna, Campania e Puglia, 16 in  Basilicata, 19 in Abruzzo e 20 in Umbria.

Il secondo comma dell’articolo 27 prevede ulteriori misure di decontribuzione per gli anni dal 2021 al 2029, di accompagnamento agli interventi di coesione territoriale del Piano Nazionale di ripresa e Resilienza e dei Piani Nazionali di Riforma, al fine di favorire la riduzione dei divari territoriali. La definizione delle  caratteristiche di queste future misure di agevolazione contributiva è rimandata a un decreto del Presidente del Consiglio del Ministri da adottarsi entro il 30 novembre 2020. Secondo le dichiarazioni  rilasciate dal Ministro dell’Economia e delle finanze e dal Ministro per il Mezzogiorno e la Coesione territoriale nella prima metà di agosto l’intenzione del Governo sembrerebbe essere di estendere sostanzialmente gli sgravi già decisi per gli ultimi tre mesi del 2020 fino al 2025, e di ridurli poi gradualmente fino ad azzerarli entro il 2030.

Si tratterebbe di una decontribuzione sostanzialmente “a pioggia”, essendo applicata a quasi tutti i lavoratori dipendenti da imprese private nelle regioni del Mezzogiorno e quindi necessariamente di una entità troppo modesta e per un periodo di tempo troppo breve per poter incidere significativamente sull’occupazione. Una decontribuzione settorialmente molto selettiva applicata in misura molto più forte e per un periodo di tempo molto più lungo potrebbe stimolare una crescita verso livelli fisiologici del tasso di occupazione nelle regioni del Mezzogiorno, senza oneri significativi, e probabilmente anzi con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica.

 3.Aspetti essenziali dell’economia del Mezzogiorno.  L’Italia presenta una diversificazione regionale dal punto di vista del tasso di occupazione  che non  sembra avere corrispondenza in nessun  altro paese industriale. Una differenza di quasi 30 punti percentuali è stato registrato nel 2018 nel tasso di occupazione  fra l’Emilia Romagna nel Nord dell’Italia (70) e Campania e Sicilia nel Mezzogiorno (41). Nelle altre regioni del Nord il tasso di occupazione, analogo a quello medio dei grandi paesi industriali, è soltanto di poco inferiore a quello dell’Emilia Romagna  (68 in Lombardia e Triveneto, 66 in  Piemonte). Tassi di occupazione soltanto di poco inferiori alla media delle regioni del Nord sono registrati dalla Toscana (67), da Umbria e Marche (65), e dalla provincia di Roma (64). Il tasso di occupazione scende verso valori intorno a 56 nelle altre province del Lazio (59 Rieti, 55 Latina e Viterbo, ma solo 48 nella provincia di Frosinone), e in tre regioni del Mezzogiorno settentrionale (58 in Abruzzo, 55 in Molise e 54 in Sardegna). Fra le altre regioni del Mezzogiorno, soltanto la Basilicata registra un tasso di occupazione, sia pur leggermente, superiore a 50, mentre il tasso di occupazione è in Puglia soltanto di un punto superiore alla media del Mezzogiorno (46). (Banca d’Italia, 2019, p. 77). Queste differenze, rilevate per il 2018, sono rimaste, sia pur con oscillazioni, sostanzialmente invariate negli ultimi 30 anni (Banca d’Italia, Economia delle regioni italiane, vari anni).

Oltre al bassissimo tasso di occupazione, le regioni del Mezzogiorno sono caratterizzate da forti flussi emigratori di  persone in età da lavoro, da un tasso di irregolarità del lavoro molto elevato (circa il doppio di quello, sostanzialmente fisiologico, delle regioni del Nord), da una domanda di lavoro proveniente pressoché esclusivamente da attività produttive  a mercato esclusivamente locale e da una forte carenza di occupazione in attività produttive a mercato internazionale.

Principalmente in conseguenza del bassissimo tasso di occupazione, e in minor misura della minore produttività, il reddito per abitante prodotto nelle regioni del Mezzogiorno è in media circa la metà di quello delle regioni del Nord dell’Italia[3]. Gli effetti sul reddito disponibile delle famiglie della minore produzione di reddito sono in misura significativa compensati in media da trasferimenti dal Nord dell’Italia che negli ani settanta e ottanta superavano il 20 per cento del prodotto interno lordo del Mezzogiorno e che, pur essendo diminuiti in misura significativa negli ultimi 30 anni, rappresentano ancora circa il 16 per cento del PIL del Mezzogiorno. Dal punto d vista degli equilibri complessivi di finanza pubblica, la forte carenza di occupazione, e quindi di produzione di reddito, nelle regioni del Mezzogiorno ha comportato una crescita fin verso livelli molto levati del debito pubblico italiano, nonostante elevati livelli di tassazione e significative restrizioni della spesa pubblica con effetti particolarmente negativi per la sanità e l’istruzione. Amartya Sen (1997, p. 5) ha inoltre magistralmente messo in evidenza come la carenza di opportunità di lavoro abbia effetti negativi  di natura anche non  economica:

“Unemployment causes penalties not only in the form of loss of family incomes and national output, but also in many other ways: deterioration of people’s skill and motivation; loss of personal freedom; worsening of health and psychological equanimity; weakening of self-esteem and motivation for future work and job search; aggravation of racial and gender inequalities; disruption of human relations and family life; weakening of social cohesion; technical and organizational inflexibility related to induced pessimism about employment prospects…”

La determinante fondamentale della forte carenza di occupazione è la carenza di competitività delle produzioni del Mezzogiorno. In un semplice schema keynesiano, la domanda effettiva per i beni prodotti (Y), e quindi per il lavoro,  in una economia aperta agli scambi con altri paesi e regioni può essere espressa come:

                                      Y = (E+G – T)/( s + m)

Nelle regioni del Mezzogiorno l’impatto sulla domanda di lavoro della finanza pubblica, misurato da G-T (spesa pubblica meno tassazione) è fortemente espansivo, questo effetto espansivo è tuttavia più che compensato  da un valore estremamente basso di E (domanda di beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da atre regioni o paesi) e da un valore molto elevato di m (quota del reddito disponibile nel Mezzogiorno speso nell’acquisto di beni prodotti in altre regioni e paesi.

Non essendo politicamente praticabile un aumento significativo dell’effetto espansivo della finanza pubblica,  l’unica via realisticamente perseguibile per stimolare  un forte aumento delle opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno sembra essere un forte aumento della competitività delle produzioni del Mezzogiorno esposte alla concorrenza internazionale, in modo da stimolare un forte aumento della domanda per i beni prodotti nel Mezzogiorno proveniente da altre regioni e paesi e una forte diminuzione della quota della domanda interna del Mezzogiorno rivolta a beni prodotti in altre regioni e paesi. Ciò può essere efficacemente perseguito concentrando la fiscalità di vantaggio sui beni a mercato internazionale, così da consentire con un lungo orizzonte temporale un drastica riduzione del costo del lavoro per le produzioni nel Mezzogiorno di beni a mercato internazionale, senza oneri rilevanti per la finanza pubblica. Mediante una fiscalità di vantaggio drasticamente selettiva ma molto forte e con un lungo orizzonte temporale sarebbe possibile innescare nelle regioni del Mezzogiorno un vigoroso processo di crescita dell’occupazione e del reddito trainato dalle esportazioni nette (Net exports led growth) in grado di avviare verso la normalità la relazione fra domanda e offerta di lavoro senza oneri rilevanti, e probabilmente con effetti nel lungo periodo addirittura positivi, per la finanza pubblica.

4. Una fiscalità di vantaggio drasticamente selettiva, con un lungo orizzonte temporale, per una forte crescita dell’occupazione e del reddito  nelle regioni del  Mezzogiorno. Circa tre milioni di posti di lavoro separano in complesso  le regioni del Mezzogiorno da un tasso di occupazione analogo a quello delle regioni del Nord dell’Italia, a sua volta sostanzialmente analogo a quello medio dei principali paesi industriali (fra 65 e 70 occupati per ogni cento persone in età da lavoro. Un aumento di occupazione di un tale ordine di grandezza potrebbe essere ottenuto stimolando un aumento dell’ordine di un milione di unità della domanda di lavoro per le attività produttive di beni a mercato internazionale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno,  portando così l’occupazione in queste attività dalle attuali circa 800 mila unità verso quasi  due milioni di unità. Un aumento di occupazione di tale ordine di grandezza potrebbe essere stimolato da una  “svalutazione fiscale” tale da ridurre di circa il 40 per cento[4] il costo del lavoro per le produzioni a mercato internazionale, mantenendo al contempo  le retribuzioni di chi lavora in queste imprese pienamene competitive rispetto a quelle ottenibili nelle produzioni a mercato esclusivamente locale, e in particolare nel pubblico impiego[5]. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività, ipotizzando un valore pari a 2 per il moltiplicatore keynesiano, potrebbe stimolare una domanda aggiuntiva di lavoro nelle attività produttive a mercato esclusivamente locale localizzate nelle regioni del Mezzogiorno dell’ordine di due milioni di unità. Il reddito aggiuntivo prodotto in queste attività potrebbe a sua volta generare entrate fiscali e contributive addizionali tali da più che compensare  gli iniziali sgravi fiscali e contributivi per le attività produttive di beni a mercato internazionale[6].

Soltanto per le produzioni di beni a mercato prevalentemente non locale una fiscalità di vantaggio volta  a ridurre il costo del lavoro  può stimolare un aumento significativo della domanda di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno. Ciò perché per queste produzioni una riduzione del costo del lavoro può determinare significativi spostamenti di domanda sia interna che esterna verso le produzioni localizzate nel Mezzogiorno. Per le produzioni a mercato esclusivamente locale, invece, la domanda di lavoro è determinata pressoché esclusivamente dalla dimensione della domanda locale. Per le produzioni di beni a mercato internazionale un forte aumento della domanda di lavoro richiede però un fiscalità di vantaggio così forte da determinare una riduzione del costo del lavoro tale da più che compensare la minore produttività in queste attività delle imprese localizzate nel   Mezzogiorno; essa  inoltre dovrebbe diminuire molto gradualmente, soltanto nella misura in cui diminuisce il divario di produttività. A parità di onere per la finanza pubblica gli effetti di sgravi fiscali e contributivi sarebbero molto più forti se venissero concentrati selettivamente sulle produzioni localizzate nelle regioni del Mezzogiorno di beni a mercato internazionale (principalmente prodotti dell’industria manifatturiera e servizi informatici). Paradossalmente, una espansione significativa  dell’occupazione nelle produzioni a mercato esclusivamente locale potrebbe essere determinato proprio dalla concentrazione degli sgravi contributivi nelle attività produttive esposte alla concorrenza esterna, per via dell’aumento di occupazione e reddito in queste attività, e quindi della domanda interna nel Mezzogiorno.

Dopo alcuni anni l’aumento di reddito generato nelle attività produttive a mercato internazionale determinerebbe ulteriori aumenti di reddito nelle produzioni a mercato locale e quindi aumenti delle entrate fiscali e contributive che potrebbero più che compensare nel lungo periodo le iniziali riduzioni di entrate fiscali e contributive. Un altro effetto positivo sarebbe rappresentato dagli aumenti di produttività stimolato dal fenomeno del “learning by doing”, particolarmente significativo in particolare nelle produzioni manifatturiere. Gli oneri delle iniziali riduzioni delle entrate fiscali e contributive possono essere in realtà considerati come spese per investimento in capitale umano, e in particolare in quel capitale umano la cui carenza è all’origine della carenza di opportunità di lavoro nelle regioni del Mezzogiorno: le abilità e capacità necessarie per essere competitivi nella produzione di beni a mercato internazionale. Infine, l’aumento delle opportunità di lavoro potrà anche a stimolare un aumento del “capitale sociale” nelle regioni del Mezzogiorno, per i suoi effetti sulla fiducia nelle istituzioni, e rendere più efficaci le azioni di  contrasto alle attività illegali.

In sintesi, per avere un impatto significativo su occupazione e reddito nelle regioni del Mezzogiorno con un onere contenuto, o addirittura con effetti positivi nel lungo periodo, per la finanza pubblica, la riduzione degli oneri fiscali e contributivi dovrebbe: 1) essere applicata soltanto alle produzioni  a mercato internazionale, e in particolare alle attività manifatturiere; 2) determinare una riduzione del costo del lavoro per le imprese  di almeno il 40 per cento[7]; 3) essere credibilmente garantita alle imprese per almeno 20 anni, con una possibile graduale, lenta  riduzione negli anni successivi, man mano che diminuisce il divario di produttività fra Nord e Sud dell’Italia nelle produzioni a mercato internazionale[8]

5,Conclusioni  Carlo Azeglio Ciampi, durante la sua Presidenza, aveva sottolineato più volte come il Mezzogiorno sia l’area dell’Italia con le maggiori potenzialità di crescita della produzione e del reddito per  la grande disponibilità di lavoro non utilizzato. Fino ad oggi, tuttavia, il lavoro non utilizzato nelle regioni del Mezzogiorno ha rappresentato un problema, invece che una opportunità di crescita per l’Italia. Neppure la “nuova programmazione” impostata negli anni novanta anche su impulso del Presidente Ciampi è riuscita a stimolare nel Mezzogiorno una significativa crescita dell’occupazione[9]. Se il Mezzogiorno fosse un paese politicamente indipendente, la piena occupazione sarebbe raggiunta mediante salari nominali dell’ordine del 60 per cento di quelli del Nord dell’Italia, in tutti i settori produttivi, incluso il pubblico impiego. Il fatto di non essere politicamente indipendente comporta per il Mezzogiorno, da un lato la possibilità di ottenere trasferimenti da altre regioni di una entità che non sarebbe possibile per una paese politicamente indipendente, dall’altro però ha precluso la possibilità di perseguire efficacemente un livello dei salari nominali compatibili con un equilibrio competitivo di piena occupazione. Considerato il clamoroso fallimento delle politiche “strutturali” volte ad aumentare la produttività nel Mezzogiorno[10] al livello del Nord dell’Italia, l’unica possibilità che potrebbe oggi essere efficace per la piena occupazione nelle regioni del Mezzogiorno sembrerebbe essere quella di una forte “svalutazione fiscale” che comporti per un lungo periodo di tempo una riduzione dell’ordine del 40 per cento del costo del lavoro  per le imprese che producono nel Mezzogiorno beni a mercato internazionale. Considerato che essa verrebbe inizialmente applicata a circa 800 mila lavoratori, pari a circa un quarto di quelli per i quali la fiscalità di vantaggio  è prevista dal decreto legge del 14 agosto, l’impatto iniziale per la finanza pubblica sarebbe dello stesso ordine di grandezza di quella preventivata (circa 5 miliardi all’anno). Man mano però che per effetto di uno shock fiscale di questa dimensione si innesca  un forte processo di crescita di occupazione e reddito nella produzione di beni a mercato internazionale, il reddito aggiuntivo provocherebbe un aumento della domanda di beni a mercato esclusivamente locale prodotti nel Mezzogiorno, con un conseguente aumento di entrate fiscali e contributive. A regime l’impatto complessivo per la finanza pubblica potrebbe essere neutrale o addirittura significativamente positivo. Con il passar del tempo, inoltre, per effetto del “learning by doing” particolarmente importante nelle produzioni a mercato internazionale, la differenza di produttività fra Mezzogiorno e Nord dell’Italia potrebbe significativamente diminuire e quindi potrebbe diminuire anche l’intensità della fiscalità di vantaggio.


[1] Secondo l’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) comma 3, “Possono considerarsi compatibili con il mercato interno  gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione ….”

[2]Si veda, per esempio, l’intervista a “Repubblica” del Ministro dell’economia Gualtieri l’8 agosto 2020, subito dopo l’approvazione “salvo Intese” del decreto legge poi pubblicato il 14 agosto:

Domanda: “Una delle misure di maggior impatto è il cuneo fiscale per il Sud che prevede una decontribuzione del 30%. Che effetto avrà sull’economia?”

Risposta: “È una scelta di portata storica, che segna una decisa svolta che mette al centro della politica economica del Paese la questione meridionale intesa come grande questione nazionale, da cui dipende la possibilità di tutto il Paese di rilanciare la sua unità e la sua capacità di sviluppo. È una misura che favorirà l’occupazione e avrà effetti espansivi derivanti dall’aumento dei consumi, degli investimenti e della competitività, il cui impatto positivo si riverbererà su tutta l’economia nazionale. La sua efficacia sarà rafforzata dal miglioramento della dotazione infrastrutturale del Mezzogiorno e dalle riforme volte a aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione e della giustizia. A regime saranno quasi 5 miliardi, anche se a partire dal 2026 la decontribuzione inizierebbe a ridursi gradualmente per poi terminare nel 2030. Intendiamo finanziare questa operazione col programma React Eu che fa parte del pacchetto Next Generation Eu“.

[3] La differenza nel PIL per abitante fra Nord e Sud dell’Italia deriva per circa il 60 per cento da un minor tasso di occupazione e per circa il 40 per cento da una minore produttività media delle regioni del Sud rispetto alle regioni del Nord dell’Italia.

[4] Secondo le stime della Svimez (2019, pag. 15), nel 2018 la produttività nell’industria in senso stretto era nel Mezzogiorno minore di circa il 26 per cento rispetto al Centro-Nord. Per rendere fortemente competitiva la  produzione nel Mezzogiorno di beni a mercato internazionale sarebbe ovviamente necessaria una differenza nel costo del lavoro per le imprese significativamente maggiore della differenza di produttività registrata per le insufficienti produzioni attualmente presenti nel Mezzogiorno.

[5] Gli effetti distorsivi di retribuzioni più elevate  nel settore pubblico che nel settore privato sono stati messi magistralmente in evidenza da Alesina, Danninger e Rostagno (2001, p. 447): “Since public jobs in the South are more attractive and available than private sector jobs, educational and attitudinal choices are tilted toward the public sector. Also, individuals do not want to exit the public sector unless they are forced to, and this creates path dependence and rigidities. In a nutshell, the argument is the following. The two “regions” of Italy (North and South) are bound by a unitary fiscal system, which implies that public wages are almost identical in nominal terms between the North and South. Since the cost of living is much lower in the South, real public wages are lower in the North than in the South. Also, opportunities in the private sector are better in the North, so public employment is comparatively more attractive in the South, relative to alternative opportunities. As a result, residents in the South seek more public employment in order to take advantage of a large income premium and a greater job security. Over time the South is caught in an equilibrium of dependency in which public jobs are a critical source of disposable income and in which private opportunities do not materialize. This creates a culture that discourages private activities and entrepreneurship and that becomes self-fulfilling: the less individuals are prepared to “face the market,” the more they prefer public jobs.”  Considerazioni analoghe erano state svolte da Alfredo Del Monte (1991). D’altronde, le reazioni fortemente negative suscitate da qualsiasi proposta di differenziazioni retributive fra Nord e Sud dell’Italia, sembrano escludere che queste distorsioni possano essere eliminate per tale via. Si vedano, per esempio, le reazioni, seguite alla considerazione del sindaco di Milano Giuseppe Sala durante una diretta Facebook sulla pagina di InOltre-Alternativa progressista (pagina dei giovani democratici), secondo cui: «è chiaro che se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso».

 Persino Luigi De Magistris, il Sindaco di Napoli che  in passato ha espresso più volte stima per  il Sindaco di Milano, ha utilizzato il termine “proposta medievale” per l’idea di differenziare le retribuzioni dei dipendenti pubblici fra il Nord e il Sud dell’Italia. Critiche altrettanto feroci sono venute da esponenti di varie forze politiche, dal Ministro Provenzano, alla deputata di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, al giornalista Klaus Davì, Consigliere comunale a San Luca(RC), a Luca Bianchi della Svimez (“La proposta di Sala è vecchia e sbagliata”). Il ministro per gli affari europei Claudio Amendola ha ritenuto di dover intervenire per chiarire che la proposta del sindaco di Milano non è condivisa né dalle forze politiche né dai sindacati. Analoghe reazioni negative c’erano state in passato per proposte di differenziazioni regionali delle retribuzioni anche pubbliche da parte, fra gli altri,  di Alfredo Del Monte (1991), Bodo e Sestito (1991), Alesina (2000), Banca Centrale Europea (2000), Marco Biagi e Maurizio Sacconi (2001), Alesina, Danning e Rostagno (2001), OECD (2002), Alesina e Giavazzi (2011), Boeri, Ichino, Moretti e Posch (2019).

[6]  Boeri e Perotti (2020) sostengono che è del tutto  irrealistico ipotizzare che la fiscalità di vantaggio “a pioggia” delineata nel decreto legge 14 agosto 2020 sia in grado di generare incrementi di reddito e quindi di entrate fiscali e contributive tali da compensare gli sgravi inziali.  Tale aspettativa non sembrerebbe essere però per niente irrealistica se la fiscalità di vantaggio fosse riservata esclusivamente a chi lavora per produrre beni a mercato internazionale.

[7] La causa fondamentale della forte  carenza di opportunità di lavoro nel Mezzogiorno è rappresentata da un costo del lavoro per le imprese che producono beni a mercato internazionale più alto di circa il 40 per cento rispetto a quello che potrebbe rendere competitivo l’impiego in queste regioni di un numero di lavoratori coerente con un tasso di occupazione simile a quello del Nord dell’Italia. Secondo le stime di Eurostat (2020), il costo per le imprese di un’ora di lavoro è stato nel 2019 in media 28,8 euro in Italia, 35.6 euro in Germania, 36,6 euro in Francia, 28,5 euro nel Regno Unito, 14,6 euro in Portogallo, 21,8 euro in Spagna, 16,4 euro in Grecia. Il prezzo del lavoro di equilibrio competitivo si può stimare che sia attualmente circa 18 euro l’ora per il Mezzogiorno, intermedio fra quelle della Spagna e quello del Portogallo, e potrebbe essere circa 30 euro per il Nord dell’Italia.

[8] Una fiscalità di vantaggio orientata prevalentemente alle attività produttive a mercato internazionale era stata sperimentata per il Mezzogiorno negli anni settanta e ottanta del secolo scorso per compensare in parte gli effetti del superamento delle “gabbie salariali”. La sua efficacia fu tuttavia modesta sia perché non fu sufficientemente forte, sia perché fu il risultato di un sovrapporsi in maniera disorganica di provvedimenti con brevi orizzonti temporali, e sempre col rischio di annullamento dei loro effetti per la contrarietà della Commissione Europea (Bodo e Sestito, 1991, pp. 251-260)

[9] Per le grandi speranze riposte negli anni novanta del secolo scorso nella nuova stagione delle politiche per il Mezzogiorno si veda, fra gli altri, (Bodo e Viesti (1997).

[10] Secondo le stime della Svimez (2019, pag. 15) nell’industria in senso stretto la produttività del Mezzogiorno in rapporto a quella del Centro-Nord sarebbe addirittura diminuita dall’88,1 per cento nel 2000 al 73,9 per cento nel 2018.


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