Un nuovo divario? La crisi delle università meridionali è anche demografica

A differenza degli altri paesi avanzati, negli ultimi anni l’Italia ha fortemente disinvestito nelle università e nella ricerca. Come mostra un’analisi curata dal prof. Gianfranco Viesti per la Fondazione Res, sono diminuiti i finanziamenti (dal 2008, il calo è stato del 21%), si è notevolmente ridotto il numero dei docenti e, fatto assai significativo, anche quello degli studenti che si iscrivono all’università. Rispetto al 2004, le immatricolazioni sono diminuite di oltre 66mila unità (-20%). I problemi, che riguardano il sistema universitario nel suo complesso, sono particolarmente acuti nel Mezzogiorno. Va delineandosi un nuovo divario, che si aggiunge a quelli già esistenti, con conseguenze non solo per il Mezzogiorno. Formazione e ricerca sono, infatti, due settori cruciali per lo sviluppo economico e, dunque, per il futuro del paese.

In un recente editoriale sul Corriere della Sera (30 dicembre), Ernesto Galli della Loggia ha esaminato la crescente disparità tra atenei del Sud e del Nord, offrendo alcune spiegazioni su cui vale la pena soffermarsi.

A suo giudizio, il sistema universitario italiano sarebbe duale, con gli atenei meridionali di “serie B”. Al Sud non si ci sarebbe alcun centro universitario di eccellenza, tutti concentrati al Nord con “qualche oasi fortunata al Centro”. Secondo Galli della Loggia, le cause di questo dualismo andrebbero ricercate, innanzitutto, nel divario storico di partenza tra le due parti del Paese. Divario che, nel tempo, si sarebbe aggravato per le condizioni economiche e culturali sfavorevoli del Sud, per l’incapacità delle elite politiche locali e per la “peste del baronato accademico meridionale”, con le sue “punte record di clientelismo accademico e non”. La subalternità delle università meridionali sarebbe accentuata dall’attuale legislazione che, premiando gli atenei ai primi posti, cioè quelli del Nord, e penalizzando quelli di “serie B” del Sud, acuirebbe le differenze.

Che il quadro normativo, attraverso la logica che sottostà alla distribuzione dei fondi, aggravi le differenze tra atenei del Nord e del Sud è un fatto fuori discussione. Ma è realistico pensare che alla radice dei problemi dell’università meridionale vi sia un divario di partenza, risalente a 150 anni fa?  Vediamo alcuni dati. Nel 1861-62, nelle università italiane risultavano iscritti 15.668 studenti. Ben il 60% di questi (cioè 9.459), erano iscritti a un solo ateneo: quello di Napoli. L’Università di Napoli contava quasi 3.500 iscritti alla facoltà di Medicina e Chirurgia, 2.800 a quella di Giurisprudenza  e, dato ancor più significativo, 1.441 a quella di Fisica, Chimica e Scienze naturali, cioè quasi la totalità degli studenti italiani di queste facoltà. In quell’anno, Palermo e Catania avevano, all’incirca, lo stesso numero di studenti di Bologna (Annuario statistico 1864, p. 384). Nel Nord c’erano sette atenei, sei nel Centro e sei atenei c’erano anche nel Sud e Isole. Certo, il tasso di analfabetismo al Sud era assai più alto che al Nord. Non era, però, molto più alto di quello registrato in alcune regioni del Centro.

È innegabile che, come osserva Galli della Loggia, le condizioni economiche dei contesti territoriali pesino anche sulle perfomance degli atenei. Pesano direttamente, attraverso il finanziamento di progetti di ricerca o la disponibilità di borse di studio; indirettamente perché maggiori probabilità di trovare un impiego influenzano la scelta degli atenei a cui iscriversi. Sono molti gli studenti del Sud che, all’atto dell’iscrizione alle lauree di base o specialistiche, anticipano la decisione che, probabilmente, avrebbero assunto in futuro, cioè quella di emigrare al Nord, attratti dalle prospettive occupazionali che potranno offrirsi loro una volta conseguito il titolo.

Non sappiamo se, come scrive Galli della Loggia, il potere baronale dei professori sia maggiore al Sud e la loro attitudine clientelare più spiccata che al Nord. Si può, però, osservare che le università meridionali non sono tutte di “serie B”. Non per quanto riguarda la ricerca. Se si scorre la graduatoria predisposta dall’Anvur, si nota come diversi dipartimenti e atenei meridionali si trovino ai primi posti, nelle diverse aree, per qualità della produzione scientifica. Come quelli di Chieti e Pescara, Catanzaro, Salerno o Foggia, per fare alcuni esempi. Naturalmente, molti sono i problemi, numerosi i risultati modesti e ampi gli spazi di miglioramento. Ma il quadro non è così desolante, come spesso lo si rappresenta. Reale e preoccupante è, invece, il calo delle immatricolazioni negli atenei meridionali. Un declino che ha diverse spiegazioni, ma una in particolare: la demografia. Tra il 2002 e il 2015, nel Mezzogiorno la popolazione è cresciuta solo del 2%, mentre al Nord dell’8,5%. Ciò significa che le regioni del Nord, anche grazie agli immigrati, hanno avuto un aumento di 2milioni e 200mila abitanti: sei volte quello del Sud. Il dato più importante riguarda, però, i giovani, il cui numero cala in tutto il Paese. Nel periodo in esame, i ragazzi tra 18 e 25 anni sono diminuiti di quasi 351mila unità al Sud (-15,5%) e di 121mila al Nord (-5,7%). Un vero crollo, sebbene la percentuale dei 19enni che si iscrivono all’università sia, rispetto a qualche anno fa, lievemente cresciuta. L’Italia invecchia. Soprattutto il Sud, anche a causa dell’emigrazione. Quelle della demografia sono paragonabili a “forze telluriche” che, lentamente ma strutturalmente, modificano l’economia e la società. Queste, non i divari di partenza, possono spiegare il calo degli studenti nelle università meridionali.

(Pubblicato anche sul “Quotidiano del Sud” del 6 Gennaio 2016 con il titolo “La demografia spiega il declino del Sud”)

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