Una valutazione di alcune misure di lotta alla povertà

Il punto di partenza Secondo il rapporto ISTAT su dati del 2015 il 28,7% delle persone residenti in Italia (circa 17,5 milioni di persone) sono a rischio di povertà o esclusione sociale o si trovano almeno in una delle seguenti condizioni: rischio di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro che costituiscono degli indicatori di povertà. Il dato complessivo è sostanzialmente uguale a quello del 2014 sia pur con un piccolo incremento di 0,4 punti percentuali. Più nel dettaglio vi è un aumento degli individui a rischio di povertà (dal 19,4% a 19,9%) e del calo di quelli che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (da 12,1% a 11,7%); resta invece invariata il numero delle famiglie in situazione di grave deprivazione (11,5%).

Guardando alla distribuzione territoriale dei dati nel 2015 nel Mezzogiorno il numero delle persone a rischio povertà sale al 46,4%, dal 45,6% dell’anno precedente. Le persone che vivono in famiglie con cinque o più componenti sono quelle più a rischio di povertà o esclusione sociale e passano dal 40,2% del 2014 al 43,7% del 2015.

In relazione alle misure di lotta alla povertà da qualche tempo si enfatizza il ruolo del reddito minimo o anche del reddito di cittadinanza. Regna però una certa incertezza sulla configurazione dello strumento in quanto nei dibattiti si parla indistintamente di reddito minimo garantito, di reddito di cittadinanza, di misure di contrasto alla povertà.

Alcuni distingo Occorre, innanzitutto, chiarire che reddito di cittadinanza e reddito minimo (che sarebbe più opportuno chiamare reddito di inclusione sociale) non sono sinonimi. Il reddito di cittadinanza è una misura universale, slegata da ogni tipo di vincolo o impegno. Il reddito minimo, invece, ha l’obiettivo dell’inclusione sociale, pone, quindi, dei vincoli, presuppone degli impegni e, soprattutto, è legato ad una particolare condizione del beneficiario.

Tralasciando il reddito di cittadinanza che proprio perché misura universale ha dei costi abnormi, occorre analizzare con realismo contabile i margini concreti per calibrare e realizzare una misura di reddito minimo garantito, selezionando quindi i destinatari. L’obiettivo sarebbe quello di assicurare una garanzia reddituale minima ai cittadini che ne sono sprovvisti per consentire il soddisfacimento di quei bisogni essenziali senza i quali, in ultima analisi, non si può parlare di pieno esercizio della democrazia dietro però impegni precisi in termini di obiettivi di inclusione sociale. In Italia il livello di povertà assoluta è del 7,6% della popolazione (6,3% delle famiglie), mentre quella di povertà relativa è del 13,7% (10,4% delle famiglie). In Calabria, per considerare la regioni meridionali messa peggio, la povertà relativa è del 28,2% delle famiglie e nel Mezzogiorno (l’Istat non pubblica i dati di povertà assoluta su base regionale) la povertà relativa è pari al 20,6% e la povertà assoluta è pari al 10,0 % della popolazione (9,1%,delle famiglie).

Una misura di reddito di cittadinanza costerebbe in Italia dai 100 ai 150 miliardi di euro l’anno e ben difficilmente queste somme si possono reperire nei bilanci pubblici dei prossimi anni e in Calabria costerebbe 4 miliardi di euro per anno.  Un reddito di inclusione sociale diretto ai disoccupati e alle famiglie in condizione di povertà assoluta costerebbe in Italia fra gli 8 e i 10 miliardi di euro e potrebbe, a certe condizioni diventare sostenibile, soprattutto se diluito in più annualità o se legato ad una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali. Il reddito di cittadinanza sarebbe un obiettivo di eccezionale portata, ma è evidente che la condizione della finanza pubblica e le prospettive di crescita impediscono di configurare oggi strumenti universali e che occorre concentrare le risorse su obiettivi selezionati e prioritari. In attesa di un riassetto della spesa pubblica che si orienti verso politiche redistributive e trasformi il nostro sistema troppo chiuso su chi è già garantito occorre attivare le poche leve regionali in mano ai governi locali. Per raggiungere, quindi, degli obiettivi più limitati ma sostenibili occorre, associare alle tradizionali politiche di welfare e di assistenza delle politiche di integrazione salariale. Tali politiche dovrebbero essere fortemente orientate sulla fase di ingresso nel mercato del lavoro, riformando nel contempo l’intero sistema degli ammortizzatori sociali.

Il reddito di inclusione sociale potrebbe essere composto di due elementi: (A) un salario d’ingresso  e (B) un reddito minimo finalizzato all’inclusione per coloro che sono in situazione di povertà assoluta, dietro assunzione di impegni precisi e erogato anche nella modalità in kind.

Il salario d’ingresso è uno strumento oltre che sostenibile e con un impatto sui bilanci limitato, con maggiori effetti in quelle regioni in cui la disoccupazione è più elevata. Se inserito in una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali o anche nel caso delle regioni che utilizzano i fondi strutturali su cui potrebbe scaricarsi gran parte dell’onere, potrebbe addirittura essere una misura a costo zero. Inoltre, è una misura che può essere finanziata con Fondi Comunitari. Che il sistema degli ammortizzatori sociali in Italia sia perverso e in alcuni casi distorsivo è facile da dimostrarsi. Basti pensare al meccanismo dell’indennità di disoccupazione agricola che, nata alcuni decenni fa, ha svolto una funzione molto importante nel ridare dignità al lavoro agricolo, ma negli ultimi 20 anni è di fatto diventata una misura di indebita integrazione al reddito. Una sorta di reddito di cittadinanza ante litteram, ma a vantaggio di una platea ristretta popolata da molti furbi. Nella sola Calabria, ad esempio, queste erogazioni hanno raggiunto negli anni scorsi una platea di 100.000 persone (ossia quasi 1/6 della forza lavoro complessiva).

Servirebbe, quindi, una grande riforma del welfare e dello Stato di fronte a due generazioni senza lavoro oggi e tutele previdenziali domani per liberare risorse in un’ottica di equità intergenerazionale e per finanziare le misure di sostegno al reddito e lotta alla povertà. Abbiamo un sistema di welfare antiquato, costoso, inefficiente e poco equo. Sarebbe necessario e urgente mettere mano al cambiamento, ma è difficile che dopo la risposta conservatrice degli italiani al referendum sulle riforme, qualcuno possa osare nel breve periodo mettere di mano a questo problema che in realtà costituisce uno dei grandi nodi irrisolti dell’economia italiana. In assenza di un intervento strutturale occorre quindi cercare di fare il possibile con gli strumenti a disposizione

Il salario di’ingresso La misura del salario d’ingresso, oltre al basso impatto sui bilanci, ha anche il pregio di essere una misura incentivante ed efficace. È incentivante perché può essere usata una sola volta e per un periodo limitato di tempo e perché mette a disposizione di chi cerca lavoro tutta una serie di incentivi che dovrebbero facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro. Si tratta di erogare al disoccupato, per un periodo di 12-18 mesi, un’indennità a fronte della quale dovrà fornire un livello minimo di servizi alla collettività e nel contempo fornirgli una dote sotto forma di bonus formativo e/o bonus per l’assunzione che nel caso in cui venga assunto potrebbe essere utilizzato dall’impresa per ottenere sgravi contributivi. La misura ha un impatto forte sulla equità intergenerazionale che è uno dei problemi principali del Paese. Basta pensare ai disequilibri generati dal sistema pensionistico retributivo e dalle sue eredità, vedi sentenza Corte Costituzionale, e il suo impatto sulle nuove generazioni che se riceveranno un trattamento pensionistico sarà sicuramente inferiore a quello delle generazioni precedenti. Nel Mezzogiorno prevedendo 50000 misure di questo genere per anno, potremmo nel giro di una tornata di programmazione interessare l’intera platea di coloro che cercano realmente di inserirsi sul mercato del lavoro. Questa misura che vale circa 1 miliardo di euro sarebbe finanziata impegnando una parte delle risorse della programmazione FSE del Mezzogiorno, cosa che porterebbe ad una velocizzazione della spesa, costituirebbe un volano per l’intera economia regionale e sarebbe un esempio di programmazione efficiente dei fondi europei. In questo unico grande progetto, supportato da una legge che renda automatiche le procedure, si dovrebbero riversare la metà delle risorse della programmazione FSE. Un solo progetto al posto di migliaia di micro-interventi che alla fine non fanno altro che rispondere a logiche clientelari e che sono uno dei motivi del cattivo funzionamento dei fondi strutturali nel Mezzogiorno. Appare necessario riscrivere i documenti di programmazione, abbandonando vecchie e inefficienti liturgie, per sposare un nuovo modello di intervento che garantisca qualità della spesa e qualità dello sviluppo, senza dimenticare la raccomandazione che viene giustamente fatta da Francesco Aiello, Francesco Foglia e Graziella Bonanno quando affermano che “impegnare finanza comunitaria per politiche contro la povertà assoluta ha poco senso in assenza di seri studi finalizzati a quantificare ex-ante l’insieme dei potenziali percettori degli aiuti”.

In attesa di politiche nazionali, le Regioni interverrebbero così sul problema sociale più drammatico che è rappresentato dallo squilibrio intergenerazionale della spesa pubblica che determina una fortissima disoccupazione giovanile e una deprivazione formativa e sociale che condiziona la vita e ormai la sopravvivenza delle famiglie. È arrivato il momento di coordinare gli interventi di politica economica tra i vari attori della Repubblica. Lo Stato, alla luce del suo ruolo di assicuratore di ultima istanza, deve intervenire con uno strumento nazionale di contrasto alla povertà per le famiglie che sono al di sotto della soglia di povertà, le Regioni devono intervenire per assicurare la riduzione delle ineguaglianze intergenerazionali che condizionano il presente e il futuro delle nuove generazioni, i Comuni devono potere orientare le poche risorse di cui dispongono integrando le misure degli altri livelli istituzionali alla luce delle proprie peculiarità sociali e delle strategie di sviluppo locale.

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