Vivere ai margini: l’utopia concreta delle aree interne

Vivere ai margini: l’utopia concreta delle aree interne
di *Angelo Palmieri   ** Vittorio Tarparelli

Chiamiamo interne quelle aree significativamente distanti dai centri di offerta di servizi essenziali (di istruzione, salute e mobilità), ricche di importanti risorse ambientali e culturali e fortemente diversificate per natura e a seguito di secolari processi di antropizzazione”. Questa la definizione di “Aree Interne” proposta dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica a dicembre 2013, a valere per i territori del Paese più distanti dai servizi essenziali, e cioè per quattromila comuni, un quarto della popolazione italiana, territori a forte rischio spopolamento (in particolare per i giovani), in cui la qualità dell’offerta educativa risulta spesso compromessa.

Per affrontare le irrisolte questioni delle Aree Interne – dall’abbandono del luogo all’invecchiamento della popolazione, dalla decrescita economica alla riduzione dell’occupazione, dalla precarietà dei servizi civili alla fragilità sociale, dalla decadenza del patrimonio paesaggistico e culturale alla friabilità degli equilibri agro-forestali e idrogeologici – si giungeva nel 2012, con l’allora ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca, a proporre una “Strategia Nazionale delle Aree Interne” (SNAI) con l’obiettivo di intervenire su alcuni processi di marginalizzazione avviando percorsi di sviluppo centrati sulla “qualità della vita delle persone” attraverso crescita e inclusione sociale.

A dire il vero la storia d’Italia conosce non pochi studi e provvedimenti destinati alle aree marginali, a cominciare dal Rapporto Jacini (1877-1884), che affrontava le condizioni della proprietà fondiaria e delle classi agricole e proponeva i mezzi più idonei per promuovere gli interessi della proprietà e migliorare le condizioni delle popolazioni contadine, giungendo a sostenere una maggiore libertà di commercio, il potenziamento di strade e ferrovie, la diffusione dell’istruzione agraria, lo sviluppo dello spirito d’associazione, l’incremento della carità e della solidarietà.

Poi nella seconda metà degli anni ’20 del Novecento c’è stata la ricerca istituita di concerto con INEA e CNR sullo “spopolamento montano in Italia” con l’intento non già di quantificare numericamente i dati di tale esodo quanto di analizzare le cause del fenomeno e proporre possibili soluzioni al problema. Ma si è dovuto aspettare sino al 1971 per la Legge 1102/71 che, per affrontare le criticità di tali aree, istituiva le “esecrande comunità montane” il cui obiettivo era di concorrere all’eliminazione degli squilibri di natura sociale ed economica tra le zone montane e il resto del territorio nazionale, alla difesa del suolo e alla protezione della natura.  Alle roboanti intenzioni poste nelle premesse oggi si oppongono i risultati raggiunti, a condannare sotto cumuli di scartoffie e di pubblica ignominia – vedi il sarcasmo riservato alle comunità montane “marittime” – questo tentativo di redenzione.

La SNAI ha avuto il merito di affrontare il declinante destino di questi territori, almeno nelle fasi preliminari, proponendo un approccio multidisciplinare, fino ad includervi la suggestiva e poetica “paesologia” di Franco Arminio.

Quando, però, si è trattato di trasferire tutto ciò in provvedimenti e in progetti, passando per le dogane del “realismo burocratico” di ministeri e regioni, l’entusiasmo si è parzialmente raffreddato. La programmazione delle singole strategie d’area locali, non sempre ponderate nel rapporto mezzi-fini, è stata spesso distesa sul letto di Procuste dei fondi strutturali, con il risultato di rendere i progetti ancora più distanti dagli inneschi originari.

Si potrà obiettare, giustamente, che per porre mano a questo pezzo d’Italia afflitto da un secolare “dilavamento di persone, comunità ed economie” non bastano le sdolcinate poesie o le edulcorate immagini di mulini bianchi o di fiction rurali. Però, è bene dirlo, non bastano neppure i soldi, certo necessari ma, evidentemente, non soddisfacenti. Dunque, che fare?

Anche le ‘aree interne’, con buona pace del loro valente ri-propositore, Fabrizio Barca, sono destinate a dissolversi nel nulla se non vengono affrontate in rapporto alle patologie del ‘centro’ a cui sono legate in modo “inscindibile” ha scritto sei anni fa il prof. Luciano Giacché, tornando a segnalare una possibile eterogenesi dei fini qualora ci si ostinasse a ragionare separando la periferia dal centro.

Una prospettiva di analisi già peraltro argomentata da Ugo Giusti nella relazione generale al rapporto INEA del 1938, in cui sottolineava l’impossibilità di studiare un grande fenomeno economico e sociale, come quello dello spopolamento, soltanto per la sola montagna senza preoccuparsi affatto di quanto avviene nel resto del territorio che pure forma con questa un tutto inscindibile.

Nel giugno 2020 il tema è stato rilanciato dall’architetto Stefano Boeri. Il suo intervento ci consentirà di stringere il ragionamento, altrimenti destinato a ripetere i “brevi cenni sull’universo” di gramsciana memoria, sul tema del “riabitare”.  Boeri parte dalla situazione pandemica e da città “attraversate da conflitti insanabili e da enormi barriere di ingiustizia sociale e con una vita privatizzata, egoista e individualista” e propone di ripensare l’articolazione tra grandi centri urbanizzati e aree interne rimettendo le cose in equilibrio, menzionando il modello francese ossia un “contratto di reciprocità” tra città e sistema di borghi. “Contratto” che dovrebbe comprendere accordi di filiera (agroalimentari, energetici, servizi, etc.) e l’avvio di processi per delocalizzare la vita urbana per periodi più estesi dei weekend e diluire la presenza degli uffici in città. Boeri parla di borghi situati a un massimo di 60 km da una città o un aeroporto.

Anche Massimiliano Fuksas è intervenuto sul tema alimentando in tal modo un interessante confronto (poi coperto dall’urgenza della seconda ondata di contagi da covid-19). A reggere le riflessioni dei due architetti-urbanisti, l’esigenza di spazi collettivi aperti, la qualità ambientale, la diffusione dello smart working, la possibilità di collegamenti a banda larga unitamente alla predisposizione di una chiara strategia di sviluppo economico che includa ad esempio la sperimentazione di modelli imprenditoriali innovativi.

Tuttavia, sul tema del digital divide, è bene ricordare che sono otto milioni gli abitanti di piccoli comuni che non hanno accesso alla rete telematica. Quando, infatti, si scende dal piano delle suggestive cartoline a quello delle “verità effettuali” constatiamo che non tutte le aree interne del Paese sono uguali. Ci sono i territori “dell’osso”, deserti e spigolosi, e i giardini liguri a due passi da Milano.  E neppure tutti i borghi con meno di cinquemila abitanti sono identici. Per restare sul solo tema dell’abitare, le strategie di reinsediamento sembrano ora procedere sulla via del pluralismo: perché una cosa è cercare di attrarre nuovi residenti, altra cosa è lavorare su situazioni intermittenti di “residenza”.

Il primo obiettivo– i “nuovi residenti” – ne implica necessariamente altri: lavoro, infrastrutture per la mobilità e le comunicazioni, servizi essenziali. Pensiamo, anche per ragioni di composizione demografica, ai presidi sanitari territoriali.  Già si osservano interessanti best practices, quali l’istituzione degli infermieri, le ostetriche di comunità oltre all’utilizzo in via sperimentale della telemedicina. Può essere questa l’occasione per ripensare una medicina di base innovativa, su una visione comunitaria sostanziata da processi di integrazione sociosanitaria, mediante interventi di risposta ai bisogni di salute ispirandosi ad una logica inclusiva della componente sociale (care) e sanitaria (cure).

Accanto alle nuove residenze – quelle che implicano scelte in principio “irreversibili” – se ne danno di altre, evocate anche da Boeri, che potremmo definire provvisorie. È una forma di residenzialità flessibile, revocabile, che implica un lavoro che si può realizzare da remoto. Ma di residenzialità flessibili si potrebbe parlare anche a proposito di borghi-laboratori in cui, consapevolmente, si realizzano esperienze di studio, formazione o di partecipazione sui temi dell’artigianato (anche digitale, tecnologico), dell’agricoltura (biodiversità, sostenibilità, etc.), di alcune discipline sanitarie, del benessere integrale o altro. Una rete di campus, senza limiti di età dove sperimentare, in concreto, “comunità provvisorie”.

Queste idee in parte collidono con la questione della proprietà degli immobili. Proprietà che resta tale anche quando sono diruti o disabitati da anni e il cui acquisto presuppone risorse finanziarie la cui disponibilità già implica la selezione di un target di nuovi residenti che restringe il campo del possibile. E poiché non sempre è possibile vendere le case ad un euro oppure procedere ad espropri (più o meno proletari), sarà necessario consentire ai nuovi residenti o “intermittenti” di superare, tramite forme fiscali o incentivi, la questione dell’abitazione, magari attraverso forme di co-housing o di recupero concordato con i proprietari di vecchi immobili o tramite la riconversione di spazi pubblici da destinare anche a spazi per il co-working. Condizione necessaria e sufficiente per mettere in moto questo processo è la possibilità di accedere alle infrastrutture telematiche a banda ultralarga. Poi, forse, “l’intendenza seguirà”. Ma se un innesco ci deve essere, dovrà partire da questo.

Una considerazione finale: per restituire vita dignitosa e comunità alle aree interne è vano ricorrere a sedicenti virtù neoliberali fatte, nei sogni, di imprenditori schumpeteriani e start-upper. In quei luoghi, il mercato, quello con i denti a sciabola, ha già decretato il suo infausto verdetto. Ripeterlo ora sarebbe solo un gratuito accanimento.


*Sociologo e Dottore di Ricerca in Economia e Gestione delle Aziende Sanitarie.

**Giornalista, già sindaco di Parrano, piccolo borgo dell’Alto Orvietano; già presidente del Gal Trasimeno-Orvietano.


 

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